La prima pietra della scuola “green”di Mario Cucinella

Pubblicato
06 May 2014

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L’architetto siciliano, bolognese d’adozione, sta realizzando un edificio scolastico energicamente autonomo: «Se vinciamo questa sfida in un posto così, non ci saranno più scuse per non realizzarli altrove».

La prima pietra della scuola “green” di Mario Cucinella, a Gaza, è stata posata il 24 marzo e nella foto ricordo il 54enne architetto palermitano (ma bolognese d’adozione) ha il sorriso perfetto di chi sta davvero realizzando un sogno. Ci sono voluti due anni e innumerevoli permessi – l’ultimo dei quali dall’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi – ma adesso il progetto di questa scuola così speciale prende vita, e lo fa secondo i princìpi e le regole di uno degli architetti più attenti alla sostenibilità che ci siano in Europa, nonché l’unico italiano che negli ultimi trent’anni abbia vinto il premio Mipim nella categoria green building.

Architetto Cucinella, come ha vissuto, da progettista e da uomo, l’esperienza di immaginare una scuola per i bambini di Gaza?

Mi ha segnato nel profondo. E’ una storia bellissima, di uomini e donne che si sono impegnati e non hanno smesso un attimo di crederci, anche quando tutto sembrava andare storto. Vogliamo costruire una scuola totalmente autonoma, che produca da sola tutta l’energia che le serve. Una scuola che ricicli l’acqua piovana, e che attraverso un’architettura di millenaria tradizione abbia anche un sistema di ventilazione all’interno dell’edificio che permette ai bambini di mantener alta l’attenzione. È proprio questo il bello del progetto, naturalmente al di là del fatto che già anche solo il costruire una scuola a Gaza vuol dire ridare dignità alle persone, perché dobbiamo ricordarci sempre che l’apprendimento di un bambino è direttamente proporzionale all’ambiente, meno l’ambiente è confortevole, meno l’alunno apprende. Più sono ottimali luce e temperatura e meglio i bambini imparano.

Era una sfida da vincere a tutti i costi?

Esatto. Questa era una sfida da vincere proprio perché Gaza è un luogo difficilissimo e deve fare da esempio e da punto di non ritorno: se vinciamo la sfida della sostenibilità negli edifici scolastici in un posto così, non ci saranno più scuse per non realizzarle altrove. Senza contare che in un posto difficile, è importante costruire una scuola bella, proprio perché non ci sono molte altre cose belle. Vede, io ho fatto l’asilo in uno spazio meraviglioso. Era una scuola realizzata dall’architetto modernista Giuseppe Vaccaro a Piacenza, e quel posto è uno dei pochi ricordi che ho di quando avevo 4 o 5 anni. La scuola era a forma di cerchio, un cerchio con un grande muro bianco e un giardino. Una scuola come quella che facciamo a Gaza, con un grande giardino interno, tante colonne, io spero che potrà viaggiare nella memoria delle persone che la frequenteranno come aveva fatto il mio asilo di quando ero bambino. È bellissima l’idea che un edificio immobile possa viaggiare nei ricordi.

Lei parlava di un’architettura che sia sostenibile per tradizione millenaria. Cosa si è rotto poi nel corso degli anni, se negli ultimi decenni abbiamo assistito al trionfo di una progettazione che nulla concede alla vivibilità?

C’è stato una specie di corto circuito. La storia ci dice che l’architettura è una grande forma di riflessione culturale, ma innanzitutto deve essere, deve creare, un qualcosa di utile. Nella storia ha sempre avuto uno stretto legame con il risparmio, con l’ambiente, una grande complicità tra l’uomo, il suo modo di costruire e i contesti ambientali e climatici. La deriva degli ultimi anni è stata quella di perdere le ragioni primordiali del fare le cose che servono, come servono, in nome di un’architettura più vicina al mondo delle illusioni che a quello reale. Il tema ambientale, di cui oggi si parla come se fosse una novità, di fatto è un patrimonio dell’umanità, da sempre, praticamente da duemila anni. Noi questo tema lo stiamo solo riscoprendo; per quanto riguarda me è sempre stata una radice fondamentale del mio lavoro. Non mi è mai piaciuta l’architettura che non si sa bene a cosa serva, che è soltanto una stravaganza che non mette al centro l’uomo come punto di riferimento.

Ma non crede che la responsabilità di ciò risieda nell’ego degli architetti, che spesso prende il sopravvento sul buon senso?

Quello ha sicuramente influito, però stiamo attenti. L’architettura è anche una forma di espressione del talento di una persona, questo non sarebbe giusto negarlo. Il problema è che quando diventa solo quello e tutto il resto non c’è, iniziano i problemi. Noi dobbiamo sempre tenere a mente il bello, ma ben sapendo che il concetto di bello varia a seconda delle epoche storiche e soprattutto deve coinvolgere tutti i nostri sensi: da un po’ di tempo a questa parte, purtroppo, noi abbiamo privilegiato il senso della vista e dimenticato tutti gli altri. Ci siamo dimenticati, per esempio, e questa è proprio la chiave della sostenibilità, il fatto che gli edifici nell’antichità erano pensati per coinvolgere tutti i sensi; si studiava la luce, la temperatura, i profumi dell’esterno, la ventilazione, le materie. Certo, anche l’estetica, ma non solo. In più, la bellezza è molto legata al proprio tempo; oggi, una cosa è bella anche perché non inquina, è bella anche perché fa bene. Noi architetti dobbiamo sempre tenere in mente questa grande verità.

Da dove si dovrebbe iniziare, per riportare le nostre città alla bellezza dei tempi passati senza rinunciare alla modernità?

“Bisogna ricucire”, come ha detto Renzo Piano. E bisogna che la politica ne abbia la volontà. Ma posso rispondere con un esempio?

Prego.

A Catania esiste un quartiere, San Berillo, che segna una frattura tra due parti della città. Un quartiere massacrato dalla guerra, evacuato, svuotato. Io ho presentato un progetto per la riqualificazione, che davvero cambierebbe il modo di vivere degli abitanti. Il progetto genererà uno spazio pubblico, una connessione tra città storica e città nuova, sarà una colata di contaminazione, fatta di verde e di spazi sociali. Il Comune aveva già bocciato tanti altri progetti, perché a tutti i costi, in quello spazio così ricco di storia ma anche di sofferenza, gli architetti volevano metterci dentro centri commerciali. Io ho proposto di metterci dentro un mercato, strutture ricettive, un teatro. Quando hanno visto questo elemento fluido, un grande progetto sociale e urbano, in Comune hanno detto sì. E poi sa cosa è successo? È cambiata la Giunta, e si sa come vanno le cose: quello che arriva dopo è sempre più bravo di quello che c’era prima. Con questo criterio abbiamo distrutto le città, in nome della politica di chi è sempre contro, che è molto comoda perché così non si fa niente.

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