Arcipelago Italia, o sulla Nuova Sobrietà Italica di Mario Cucinella

Pubblicato
18 Jul 2018

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Arcipelago Italia è un manifesto che indica possibili strade da percorrere per il rilancio dei territori interni, per dare nuovamente valore e importanza all’architettura e perché il lavoro degli architetti torni ad avere un ruolo di responsabilità sociale.

Queste le parole utilizzate da Mario Cucinella, curatore del Padiglione Italia alla Biennale di Venezia, per presentare il suo progetto/proposta/provocazione sull’Arcipelago della cosiddetta Italia minore, e cioè quei brani di paesaggio sempre più spesso dimenticati perché incapaci di attrarre George Clooney o Chiara Ferragni per l’ennesimo photo shooting.

Indifferente al volume di likes, clicks, e followers, Arcipelago Italia si pone l’obiettivo di condividere una conoscenza meno superficiale ma più approfondita dell’Italia più invisibile e ferita, ma anche quella più ricca di potenzialità e di bellezza: la più estesa riserva di ossigeno del Paese, i luoghi, attraversati da secoli di storie, percorsi, popoli e architetture e insieme le persone e il modo in cui gestiscono gli spazi, la vivacità culturale e lo sforzo di molte comunità per restare nei propri paesi.

Questi brani di paesaggio abitano oggi non lo strillato spazio vuoto– free space –che una Biennale priva di curatela (a detta di quasi tutti gli osservatori, internazionali e locali) non riesce a fare emergere ma il vuoto pneumatico dell’oblio mediatico e forse proprio per questo le cinque proposte progettuali messe in mostra riescono a dimostrare come l’architettura ‘possa offrire un’opportunità di rinascita al Paese, diventando strumento di discussione e ausilio anche per comunità e amministratori locali.

Il lavoro di Mario Cucinella investe territori lontani dalle aree metropolitane italiane e affronta questioni di grande attualità. Le cinque aree–le Foreste Casentinesi, Camerino, il Basento, il Belice e la Barbagia—fanno emergere i temi su cui è necessario oggi lavorare cercando di rimettere in moto una macchina culturale il cui motore gira spesso a vuoto: rilancio del bosco e della filiera produttiva del legno (Foreste Casentinesi), ricostruzione e del rapporto tra temporaneità e permanenza (Camerino); la mobilità e le connessioni materiali e immateriali come motore di sviluppo (Basento);il ruolo del patrimonio culturale nelle città (Gibellina); nuovi spazi per la cura e la salute (Barbagia).

“Nella convinzione che l’architettura possa essere un decisivo strumento di rilancio dei territori interni, –  aggiunge Cucinella, – ho individuato cinque aree strategiche. È stato costituito un collettivo di professionisti, che ha lavorato allo sviluppo di cinque progetti di edifici ibridi, supportato da un processo che ha visto momenti di coinvolgimento e partecipazione della cittadinanza e degli stakeholder, con l’obiettivo di contribuire a risolvere i problemi generati dallo spopolamento e dalla carenza di servizi di quei territori.

Il modus operandi del collettivo si basa su di un modus vivendi poco utilizzato in un paese di grandi (sgarbati) strillatori a la Sgarbi: quello dell’ascolto, che diventa uno presupposto fondamentale per cercare di comunicare davvero un messaggio di rilancio: le persone, la loro conoscenza e la loro competenza sono la risorsa principale di un luogo. “In questi mesi abbiamo avviato politiche di confronto con le associazioni e con tutti gli attori del contesto, con l’obiettivo di avere un impatto positivo sul territorio” – spiega il curatore – “e arrivare a proposte progettuali innovative non previste e condivise.”

I progetti selezionati, i progetti commissionati ma anche la sapienzialità evocata dell’allestimento del Padiglione Italia di Mario Cucinella fanno emergere una Nuova Sobrietà tanto attesa (almeno da chi scrive che ne aveva auspicato l’apparizione già nel 2007) ma troppo stesso disattesa. Si tratta di una sobrietà convincente, solida e discorsiva di cui che ricorda a tutti la qualità di vita dei piccoli borghi nazionali, ma anche la fragilità della loro bellezza, e la potenza delle loro risorse latenti.

Il risultato è il miglior padiglione nazionale da quando esiste la Biennale ma anche l’unico padiglione (insieme al confinante padiglione Cinese che pone l’attenzione sul recupero dei borghi rurali selezionando progetti di impianto chiaro spesso realizzati con stupefacente maestria) che emerge per ambizione, spessore e qualità della proposta in una Biennale che assomiglia sempre più ad una mostra la cui giuria (in conseguenza di evidenti conflitti di interessi accademici personali come suggeriscono i più maliziosi, che spesso ci azzeccano) non sa far altro che premiare il preoccupante vuoto mentale prima che culturale di boutade come quella del padiglione Svizzero e quello Inglese che, denudati di cose e case, sembrano certificare il declino inarrestabile del mondo occidentale e della sua intelligentia, più interessata allo Spritz Campari che al ruolo culturale dell’architettura o della stessa Biennale. Questo si sembra uno scherzo di cui, purtroppo, un sempre minore numero di addetti ai lavori trova utile ragionare.

 

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