Conrad Bercah intervista Mario Cucinella

Pubblicato
20 Dec 2018

Lettura
7 min


MC. – L’architettura spesso risponde a domande mal poste, o non abbastanza precise, e si rifugia nella ricerca di un’estetica decisamente sopra le righe. Nel mio pragmatismo mi domando fino a quando vogliamo esasperare la forma per trasformarla in una stravaganza che lascia comunque aperte le questioni fondamentali. I problemi veri sono altri: trovare un sistema per fare abitare meglio le persone, pianificare le città con attenzione ai grandi temi ambientali, occuparsi di inquinamento, di una nuova visione di pianificazione ed integrazione con gli edifici, eccetera. Sembra quasi che il valore di un edificio sia quello dell’opera d’arte e che tutti gli altri problemi siano come dire marginali. La mia cultura del fare mi dice che i problemi che ho detto sono profondamente legati alle ragioni del fare architettura.

CB. – Ti riferisci al fenomeno delle cosiddette “archistar”?
MC. – Sì, ma non sono loro il problema! È giusto che ci siano degli sperimentatori che indagano un tempo che verrà e che questo aspetto spinga a muoversi su nuove direzioni. Come in tutto il mondo umanistico, ci sono gli avanguardisti, avanti nel tempo o dotati più degli altri di una certa potenza creativa. Ma questi processi, necessari, oggi dovrebbero essere dirottati sui nuovi temi che riguardano la qualità della città, le attenzioni ambientali e l’impatto degli edifici dal punto di vista ecologico e su questo siamo ancora lontani, anche grazie ad un mondo della comunicazione dell’architettura a cui non interessa tanto.
L’architettura si consuma come un’immagine di moda su una rivista, e ciò è diseducativo per i giovani che dovranno confrontarsi con temi molto concreti e reali. Questo consumo dell’immagine – della novità sempre più accattivante – è un fenomeno che viene da un mondo non reale. Nel mondo reale queste cose non ci sono. Io preferisco la concretezza delle cose, la realtà con tutte le sue sfumature, ad un mondo virtuale anche interessante ma illusorio perché creato dalla cultura pubblicitaria. Faccio un esempio banale: la pubblicità delle automobili che propone un mondo che non c’è. Vedi le macchine circolare in città vuote (ma dove vivano gli abitanti non si sa). Ti propongono SUV per andare sull’Everest – dove non vai certo tutti i giorni. È il gioco illusorio di creare necessità indotte. Che questo gioco sconfini nel campo dell’architettura mi sembra molto curioso, quasi pericoloso…

CB. – Mi sembra che tu non ti ponga il problema del linguaggio.
MC. – La questione del linguaggio per cui un architetto fa sempre le stesse cose con il suo stile mi sembra fuori dal tempo; forse gli ultimi in Italia sono stati personaggi come Gregotti o Aldo Rossi. Oggi credo davvero che il tema del linguaggio, guardando quello che abbiamo intorno, abbia un’importanza relativa. Ciascuno ovviamente ha le sue parole e il suo modo di fare, però i problemi nell’architettura sono altri.
Sono il rapporto con il contesto, con la forma e con i temi energetici a plasmare oggi le cose in modo meno accademico. Lo si vede bene sulle riviste. Se una volta era facile riconoscere un’architettura di Rossi, ad esempio, oggi sfogliando le riviste è difficile individuare il nome dell’autore prima di leggerlo e forse la contaminazione delle culture, anche grazie ai nuovi strumenti di comunicazione, ha portato a una più larga condivisione di linguaggi e forme.

CB. – I giapponesi un po’ di più degli altri…
MC. – Sì, loro hanno una capacità unica perché il lavoro di Tadao Ando alla Sejima è effettivamente costruito su di un linguaggio più complesso. Ma comunque alcuni di loro per me sono una grande lezione. Quando vedo che riescono a lavorare in uno dei paesi più sismici del mondo con la leggerezza che è loro propria rimango affascinato, mentre noi, che condividiamo quel problema, dobbiamo sempre avere strutture molto pesanti. In generale devo dire che mi sembra anche un’evoluzione dell’architettura. La forma mi sembra oggi un elemento più importante del linguaggio; come occupare lo spazio, il disegno degli oggetti nello spazio, più che un gioco di estetica pura delle facciate.

CB. – Mi fai ripensare a Scharoun. Quando qualcuno gli chiese come era stato generato il prospetto della biblioteca di Berlino, Scharoun non sapeva cosa rispondere. Poi, dopo averci pensato un po’, ammise che non si era posto il problema.
MC. – Sì, è così. Quando andai a vedere da ragazzo la Filarmonica, la cosa che più mi affascinò era il fatto che fosse praticamente impossibile ricordarsi in cosa consistesse l’edificio, se non in un gioco di forme dettate da una funzione acustica e dall’uso dello spazio. Quando ero studente e andavo a Berlino a vedere queste architetture, venivo da un’Italia dove invece il linguaggio era un elemento fortissimo. Le riviste italiane pubblicavano tutto un filone di architetti che facevano cose rigidissime molto formali, per cui arrivare a Berlino e vedere Scharoun era una liberazione. Resta ancora molto contemporaneo.

CB. – Scharoun ha anche teorizzato i vuoti su cui Berlino si è poi effettivamente costruita nel tempo.
MC. – A me sembra che la pianificazione urbana rappresenti uno dei più grandi fallimenti del nostro tempo. Guardando il risultato rispetto alle ambizioni si capisce che qualcosa non ha funzionato. Oggi leggiamo il mondo in una forma dinamica, per troppo tempo l’urbanistica è stata letta come una forma statica oltre che di potere. Ma è un’ovvietà. Pianificare per zone, per aree, per temi, senza considerare i flussi è stato un errore clamoroso che ha generato una serie di conseguenze gravi sulla realizzazioni dei quartieri, sulle infrastrutture e sul sistema dei trasporti. Se nel dopoguerra pianificare lo sviluppo era necessario, oggi la domanda è un’altra e riguarda la gestione del costruito e la messa in rete degli spazi vuoti dentro le città. La verità è che l’urbanistica è stato uno dei più grandi strumenti di contrattazione politica. La politica aveva in mano il territorio e con quello ha trattato con il mondo privato. Evidentemente quello è stato un grandissimo potere, gestito molto spesso anche da una parte della sinistra italiana che però lottava contemporaneamente contro la speculazione edilizia. Dietro c’era anche un’idea ideologica del piano urbanistico, alle volte quasi naive – insomma, non puoi vedere la città solo in modo marxista …

CB. – …struttura, sovrastruttura…
MC. – Quello che mi sembra interessante nella disciplina dell’urbanistica è che finalmente si è capito che l’architettura è un elemento fondamentale del piano urbanistico. Puoi fare i piani migliori del mondo ma se ci metti dentro l’architettura sbagliata non funziona neanche il piano. Queste cose si sovrappongono lentamente. Oggi nell’architettura abbiamo utensili di progettazione dinamici come le simulazioni termodinamiche o la modellazione 3D, che ti permettono di vedere e capire sia lo spazio che le dinamiche energetiche e forse, se adesso questo lo facessimo anche sul piano urbanistico, ecco che potremmo leggere il territorio in modo dinamico e imporre una visione non più ideologica ma creativa. Oggi siamo in un periodo di shifting tra un’ideologia molto politica e un’ideologia più creativa.

CB. – Parlando del piano di Roma Benevolo ha detto: “eravamo convinti che una volta che il piano fosse stato approvato, sarebbe stato implementato”. In realtà, in Italia, abbiamo una produzione legislativa smisurata che non permette di implementare le leggi approvate.
MC. – L’economia di questo paese è in affanno per tante ragioni, non certo solo per colpa nostra, ma uno dei grandi motori dell’economia italiana è stato il cambio di destinazione d’uso del territorio che è diventato, oltretutto, uno dei grandi strumenti di corruzione, generando immense fortune grazie a speculazioni di livello decisamente medio – basso, creando di fatto una specie di doping. Ma il territorio è finito, e adesso? Quello che a me sembra delirante è che di fronte alla speculazione edilizia si debba ricorrere a risorse pubbliche per risanare il territorio. Vedremo come andrà a finire. O si mette in moto una politica visionaria – e la vedo difficile – oppure il regime di lassismo rischia di regnare incontrastato. Mi sto confrontando con dei piani urbanistici del Veneto, regione che è stata oggetto di un massacro territoriale grazie alla devastante legge Tremonti. La possibilità di dedurre dai bilanci il costo di costruire capannoni ha fatto riempire il Veneto, e non solo, di capannoni vuoti che nessuno ha comperato o utilizzato. Adesso, dopo che si è illegalmente cosparso il paese di brutture, i comitati dicono giustamente “no al cemento”. “No al cemento” però non può essere la solo politica, è un po’ troppo semplice! Non puoi comparare azioni di legalità con illegalità. Credo ancora che costruire bene creando bellezza sia una cura essenziale per il nostro territorio.

 

Intervista pubblicata sul numero di ottobre 2017 su

Notizie correlate

Tutte le nostre novità

Copyright 2024 MCA.