MC A – Mario Cucinella Architetcs: per un’architettura che mette al centro l’uomo

Pubblicato
05 Mar 2020

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By Andrea Carloni e Carlotta Ferrati

[…] Parlando con Mario Cucinella si capisce come al centro del suo pensiero non vi sia l’edificio e la forma fine a se stessa, ma la possibilità di usare l’architettura come mezzo per migliorare la vita delle persone. Mario Cucinella, tramite i propri progetti, non ha mai cercato di diventare una star in cerca di applausi e notorietà, ma un uomo che mette il suo lavoro al servizio della comunità.

MC A – Mario Cucinella Architetcs lavora su più scale e in molteplici luoghi del pianeta. Cosa vuol dire gestire un tale tipo di struttura? 

Premetto che anche noi quando abbiamo iniziato eravamo un piccolo studio di architettura. La configurazione attuale, solo nella sede di Bologna, comprende circa 100 persone; tale tipo di struttura ci ha permesso di introdurre figure e mansioni che altrimenti non sarebbero state sostenibili. Per farle un esempio, abbiamo un gruppo di ricerca di 4 /5 persone che si reca sui luoghi di progetto con il compito di valutare l’impatto che il nostro edificio avrà sul contesto. Durante l’analisi vengono raccolti anche una grande quantità di dati di diversa natura con i quali ci confronteremo durante la progettazione.

Sarebbe giusto dire che “vi adattate al luogo”?

Noi non esportiamo modelli, lavoriamo sulle relazioni locali. Credo che questo approccio sia anche un modo per rispettare il tema della diversità e dell’ecosistema. […]

MC A è molto attento al tema della sostenibilità. Cosa vuol dire fare una “vera architettura sostenibile”? 

Crediamo nella sostenibilità fin da tempi non sospetti quando questi temi non erano il trend del momento. Per noi l’architettura è espressione di un luogo e non viceversa. Il linguaggio architettonico che “colonizza” il territorio non fa parte del nostro modo di pensare. […] Sostenibilità oggi è un termine inflazionato che spesso viene usato in maniera impropria. Per dare una definizione partirei da due aspetti. Il primo riguarda l’aspetto prestazionale e cioè la possibilità di realizzare edifici che consumano poco ed hanno un basso impatto sull’ambiente. Questo accade non solo grazie alla tecnologia, ma al come un’architettura viene pensata. Il secondo aspetto è quello culturale in cui si cerca di trovare un’empatia con il luogo e con le persone che lo abiteranno. Troppo spesso ancora oggi quello che dovrebbe essere lo scopo principale di un edificio e cioè la sua capacità di accogliere gli abitanti è tenuto in secondo piano. Alcuni degli elementi fondamentali del fare un’architettura capace di accogliere e non di respingere i suoi abitanti purtroppo non sono visibili e quindi risultano essere meno attraenti per gli architetti, basti pensare alla qualità dell’aria, della luce e degli spazi abitabili. Questi fattori sono fondamentali, ma purtroppo non sono “fotogenici”. Per noi al centro dell’architettura vi è l’abitare ed è nostro dovere trovare le soluzioni migliori capaci di soddisfare questo diritto.

Mi sembra di capire che per lei il tema centrale della sostenibilità sia l’aspetto culturale…

Oggi c’è una deriva tecnologica in cui credo sempre meno.
Pensare che con un app faremo funzionare tutto in modo perfetto credo sia una grande menzogna. Il vero centro delle ricerca sono le capacità degli uomini e l’architettura non viene fatta dai marchingegni tecnologici che mettiamo dentro gli edifici. La tecnologia non è il fine del progetto, ma solo un supporto a questo.

L’architettura da sempre non si limita a realizzare contenitori e, tramite i suoi interventi, influisce sugli equilibri sociali dei territori che occupa. Cosa pensa riguardo a questo?

Le faccio un esempio. Se un edificio all’interno della città non viene utilizzato diventa un elemento sordo. Quasi come uno strumento che non funziona all’interno di un’orchestra. Questo inutilizzo però non è neutrale e come in un’orchestra il suo non funzionare crea squilibri e danni a tutto quello che si trova intorno. L’architettura diventa tale solo quando inizia ad essere vissuta dall’uomo. Ed uno dei primi pensieri dell’architetto dovrebbe essere il pensare alla ricaduta del suo lavoro sulla città. Costruire edifici genera comportamenti. Gli architetti hanno una grande responsabilità sociale.

In Italia ci sono stati casi emblematici come il Corviale a Roma che sembrano ben avvalorare la sua tesi…

Quello è stato un esercizio accademico puramente teorico che si è trasformato in un incubo per i suoi abitanti.

L’architettura da sempre ha avuto un ruolo politico, basti pensare al popolo egizio per passare ai romani ed al ‘500 italiano fino ad arrivare alle rivoluzioni e guerre del ‘900. Secondo lei ancora oggi l’architettura può avere un ruolo politico?

Costruire architettura è un atto politico. Quando viene costruito un nuovo ospedale, una piazza, una scuola sono tutte iniziative che partono dalla politica. Il problema in Italia è che la politica ha deciso che l’architettura non è più il mezzo per farsi rappresentare. Con il protrarsi di questo atteggiamento le conseguenze sono diventate molto gravi perché gli strumenti urbanistici sono ormai obsoleti, le città sono spesso in grande affanno e non vengono più costruiti luoghi comuni per i cittadini. In passato l’architettura grazie alla volontà politica era uno strumento culturale ed educativo attento alle tematiche sociali. Venivano costruiti nuovi quartieri, nuove città e molti spazi comuni. Oggi tutto questo è scomparso.

La politica e l’architettura del passato hanno commesso anche molti errori, sto pensando alla costruzione di quelle che vengono chiamate “periferie”…

Purtroppo molti di questi soggetti sono stati pensati senza la complessità necessaria. Abbiamo costruito intere città dormitorio e cinquant’anni dopo ancora ci stupiamo se sono la causa di molti problemi sociali. Se in una città non inseriamo scuole, negozi, bar, musei e tutte le attività necessarie a creare aggregazione sociale è inevitabile che avremo molti problemi. In poche parole è mancata una visione urbanistica. Ci sono state anche esperienze molto felici come il piano INA-Casa voluto da Amintore Fanfani nel 1949.

Secondo lei ci sono delle componenti fondamentali per far funzionare una periferia?

Prima di tutto dobbiamo smettere di usare il termine periferia, perché è fuorviante. Oggi ci sono le città metropolitane composte da diversi comuni e configurate in modo policentrico. Il tessuto che le compone è eterogeneo, fatto di antico e moderno. Credo che le zone storiche dovrebbero essere alleggerite di alcuni servizi come ad esempio le scuole o gli edifici comunali che vedo più idonei se collocati nelle nuove zone. Se dovessi fare il nuovo Teatro della Scala non lo farei nel centro storico di Milano, ma in uno dei nuovi quartieri in via di sviluppo che non devono essere considerati spazi di serie B, ma le nostre opportunità per costruire una città migliore. Milano su questo aspetto sta facendo molto bene. Oggi per fare politica ci vuole capacità e voglia di lottare per i propri ideali. Con i selfie su Facebook la città non la costruisci!

Se ho capito bene per lei la città che funziona è quella policentrica?

Esatto. Va detto che la morfologia del nostro paese è molto particolare e le città partono sempre da un centro storico che ormai si trova sempre più lontano rispetto ad altre zone. Una soluzione a questo è creare altri poli di attrazione che bilancino il tutto. La città oggi non è più assimilabile ad un punto, ma ad una costellazione di centri che formano una rete. […]

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