Mini progetti partecipati, la ricetta di Cucinella per la rinascita delle periferie

Pubblicato
13 Feb 2015

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Di Mila Fiordalisi

Presentato a Roma il primo rapporto annuale sui progetti di recupero partecipato realizzate dai giovani architetti guidati dall’archistar – Protagonisti i sobborghi di Torino, Roma e Catania.

«La città si fa con gli altri. E solo se ci si prende cura delle città, innescando politiche di dialogo con i cittadini sarà possibile fare un passo in avanti nella rigenerazione delle periferie». Ne è convinto l’architetto Mario Cucinella, che a un anno dal progetto portato avanti nel quartiere Librino a Catania – nell’ambito dell’iniziativa di Renzo Piano dedicata a “sperimentare” modelli innovativi per la riqualificazione delle aree urbane periferiche – si prepara ora a “trasformare” la periferia di Aosta attraverso la riconversione di un ex caserma del demanio, situata per l’appunto al di là del confine del centro cittadino, nella sede della nuova università e biblioteca cittadina. «La struttura è localizzata alla soglia del centro di Aosta, di fatto già fuori dal centro o da ciò che in città è considerato tale. Con questo progetto puntiamo dunque a dare vita a un’area finora rimasta periferica e questo significa innescare la trasformazione urbana».

Architetto Cucinella, secondo lei esiste un «modello» vincente per innescare la riqualificazione delle periferie? «Posso dirle che finora non ha funzionato niente. Le politiche urbanistiche hanno fallito. Le città hanno piani regolatori del 1986, lavorano su piani di varianti che durano tre anni, periodo troppo lungo per stare dietro alla trasformazione della città, che marcia a un ritmo molto più veloce. Quello che bisogna fare è prendersi cura delle città, attraverso una sorta di urbanistica di dialogo, con le persone e quindi i luoghi e gli spazi. L’idea di trasferire nelle periferie attività importanti quali ad esempio quelle legate alla formazione – quindi le università – ma anche musei e centri sportivi è un modo per accendere i riflettori su zone spesso considerate degradate ma dove in realtà vivono sempre più persone, al punto a volte da rappresentare vere e proprie città nelle città, come nel caso del quartiere Librino di Catania, popolata da circa 70mila abitanti. Fra l’altro le periferie offrono spazi che nei centri storici non ci sono e quindi consentono una progettazione ottimale di strutture di grandi dimensioni».

Bisogna abbandonare il centro storico? «No, dico che bisogna smetterla di accanirsi sulla città storica. Le politiche di valorizzazione dei centri storici hanno funzionato bene, ora però bisogna ripartire dall’idea che nelle periferie ci abita la maggioranza della popolazione, il 70-80% del totale degli abitanti delle città».

Il progetto portato avanti a Catania cosa ha sortito? Cosa avete appreso da questa esperienza? «Il quartiere Librino, come molti quartieri periferici italiani, è stato costruito sull’idea degli anni 70 delle città «nuove», fondate sull’ideale di una vita migliore. L’obiettivo era dare vita a quartieri molto verdi, con grandi spazi e servizi per i cittadini. Ma il sogno si è trasformato in un incubo. A Catania non avevamo né l’arroganza né la possibilità di fare un grande progetto. Siamo andati a osservare e studiare un “frammento” di questo enorme quartiere. E insieme con i cittadini e coinvolgendo associazioni locali e Comune, abbiamo portato avanti una serie di iniziative, dalla riconversione di vecchi edifici alla sistemazione di strade e piazze. Ma sono stati soprattutto i giovani, in particolare il gruppo dei Briganti, a dimostrarsi molto attivi. Ma la cosa da evidenziare è che una volta innescata la miccia le iniziative si auto-alimentano e ne generano altre coinvolgendo sempre più partecipanti. A Catania, ad esempio, hanno deciso di scendere in campo anche l’Ance e Confagricoltura e ciò ha consentito di avviare una serie di laboratori cittadini».

In Italia ci sono delle best practice? «Ci sono delle iniziative che hanno funzionato. A Bologna, ad esempio il progetto Bella Fuori della Fondazione del Monte finanzia a concorso, con un milione di euro, giovani architetti per «rammendare» una specifica area periferica. E sono già stati effettuati tre interventi. Ecco, abbiamo bisogno di progetti come questi, di una politica di interventi di «rammendo» portata avanti da gruppi di giovani e microimprese. Per rilanciare i grandi numeri attraverso piccole azioni. La sostanza è che bisogna lavorare a risolvere problemi reali e dire basta alla mera teorizzazione. La città si fa con gli altri».

La rigenerazione delle periferie è determinante? «Troppo spesso si parla di rigenerazione urbana come fosse la panacea di tutti i mali. Ma la verità è che la politica ha tempi stratosferici rispetto alle necessità del territorio. Il Governo ha annunciato di essere pronto a stanziare 200 milioni per dare il via al progetto di «rammendo» delle periferie. Non è molto ma di sicuro è un punto di partenza. Meglio puntare su piccoli interventi guidati da grandi visioni».

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