Arte e Architettura dell’ascolto con Mario Cucinella

Pubblicato
07 May 2018

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di Luciano Marucci

Dell’indagine da me condotta sull’Arte Urbana, che vado pubblicando a puntate nel bimestrale a stampa “Juliet” art magazine, viene qui riportata la parte dell’intervista con l’archistar bolognese Mario Cucinella – professionista innovativo e civilmente impegnato – sul rapporto architettura-arte contemporanea e sul Padiglione Italia della prossima Biennale Internazionale di Architettura di Venezia da lui curato. Già nel febbraio 2017, in una conversazione incentrata sul suo progetto per il nuovo Centro Arti e Scienze Golinelli di Bologna, egli mi aveva dichiarato: «Il ruolo dell’architetto si divide tra il mondo delle arti visive e quello delle scienze. Il costruire è un’arte che nello stesso tempo implica conoscenze di natura scientifica. L’artista ha una forza liberatoria perché ha la capacità di esprimersi senza regole, senza intralci. Io faccio un mestiere un po’ diverso: attraverso un pensiero artistico affronto il materiale, la trasformazione dell’idea. La scommessa dell’architettura è tutta qui: essere progressista per divenire un grande mezzo di comunicazione. L’avevano capito molto bene, per esempio, i dittatori che la usavano, e la usano ancora, come strumento di convinzione. L’architettura, nel rapporto con il mondo sociale, è potente. Deve migliorare la vita delle persone; non affermare il potere, ma l’apertura del nostro tempo. In Francia è ritenuta la prima manifestazione della cultura. In questa valutazione si nasconde l’insidia della cultura nel nostro Paese. Io cerco di utilizzare l’architettura come forma di espressione non solo artistica, ma letteraria, di natura più sociale, ecc. Mi piace il bello della parola “cultura”, quella che usava Pasolini».

E in merito al suo interesse per l’arte contemporanea Cucinella precisava: «Seguo gli artisti che si esprimono con modalità diverse e che io chiamo “sensori sensibili”. Penso a Joseph Beuys, fondatore in Germania del movimento dei Verdi. Ecco allora che dalla sensibilità artistica può nascere la politica. L’arte contemporanea non è solo fine a sé stessa e ci aiuta a superare pure l’alienazione quotidiana. È l’unico ambito di vera libertà in una vita che non è sempre quella che avremmo voluto. Dovrebbe rinascere un legame stretto tra architettura e arte, perché entrambe siano espressione della società. Non a caso nei paesi in cui si coltiva la creatività, architettura e arte si manifestano al meglio e si registra la più grande crescita del PIL. Purtroppo, con la logica basata solo sul profitto abbiamo prodotto il disastro sociale delle disuguaglianze; invece di crescere in una società più unita, ci troviamo sempre più divisi. Forse l’arte può generare fenomeni che possono aiutarci a risolvere certe problematiche».

Questo il testo del dialogo telefonico del 9 aprile:

In genere c’è una relazione strutturale o concettuale tra i progetti del suo Studio e l’arte contemporanea? Penso, in particolare, agli aspetti interattivi della fruizione e della funzione.
Sarebbe interessante fare più progetti che mettano in relazione il mondo dell’arte e l’architettura, perché quest’ultima, in fondo, ha un contenuto artistico. Nel suo insieme è un tipo di educazione sostanziale che nella storia ha avuto spesso una connessione con il mondo dell’arte. Pensi a quanta architettura del Cinquecento e del Seicento è relazionata a sculture e affreschi. L’arte è sempre stata una pratica che in qualche modo ha arricchito il lavoro degli architetti. Oggi scopriamo che, senza la legge del 2% degli investimenti sulle opere pubbliche, si fa troppo poco; mentre sarebbe necessario che il collegamento architettura-mondo dell’arte fosse più consistente, perché ci accorgiamo che manca l’essenziale quota parte dell’educazione artistica. Problema questo riscontrabile un po’ in tutto il mondo.

Nei progetti architettonici dei centri urbani, oltre agli interventi di riqualificazione delle zone periferiche, sarebbe logico e possibile prevedere spazi da destinare ai giovani per incrementare la creatività?
Credo di sì. In questo momento le realizzazioni artistiche all’esterno sono l’inizio di un problema, invece è mia convinzione che bisogna investire molte risorse per aiutare i giovani artisti a formarsi, a trovare nuove strade. L’artista, nel senso più ampio della parola, è una persona che può raccontare delle cose, che può lasciare un segno anche nella vita quotidiana. Aver pensato troppo a un mondo razionale ci ha portato a dimenticare che l’arte ha una funzione fondamentale; che nella città contemporanea si devono riservare degli spazi ai giovani. Penso alle aree abbandonate che potrebbero diventare luoghi straordinari in cui sviluppare le condizioni per farli esprimere al meglio. La creatività è uno strumento che va valorizzato, il tasto più importante dei prossimi anni anche sul tema della rigenerazione urbana della quale si parla troppo in termini funzionali, quando avremmo bisogno di atteggiamenti tranquilli.

Certi luoghi, forse, farebbero diminuire gli interventi selvaggi ai danni degli edifici storici o di pregio e potrebbero rappresentare anche un’attrazione turistica.
Assolutamente. Le zone industriali abbandonate, prossime alla città, si potrebbero riqualificare in modo che diventino delle concentrazioni di creatività. Penso a una grande fabbrica dismessa vicino Pechino, in un’area di un chilometro per un chilometro, dove gli artisti che usano diversi linguaggi hanno i loro atelier, dove si possono visitare mostre, e c’è anche una factory. Il luogo è divenuto un punto di attrazione turistica. Noi dovremmo fare quel passo per offrire alle nuove generazioni la possibilità di costruire anche una rete di relazioni con il mondo dell’arte.

Qual è la sua idea di architettura relazionale?
Per me questo tema è legato alle politiche di ascolto. Bisogna ascoltare di più la gente che abita nelle città, nei quartieri periferici, perché – come dicevo – l’architettura è uno strumento molto, molto potente e, se operiamo male, facciamo grandi danni. Se invece ascoltiamo la gente, gli architetti potrebbero trovare le giuste soluzioni ai problemi della quotidianità e realizzare delle costruzioni che abbiano un senso civile. Ciò farebbe la differenza.

Ha espresso questo concept nel progetto per il Padiglione Italia della 16. Biennale Internazionale di Architettura di Venezia?
Sì, per ARCIPELAGO ITALIA. Progetti per il futuro dei territori interni del Paese è stato costituito un collettivo con sei team di giovani architetti assieme con degli esperti progettisti, tra cui il famoso gruppo “Ascolto Attivo”. I progetti proposti, infatti, sono nati da un dialogo con le comunità. Gli architetti hanno ascoltato i bisogni, le necessità degli abitanti e hanno ideato lavori che corrispondono ai loro desideri. Io credo che alla Biennale raccontiamo una storia non romantica, non patetica, in cui il ruolo dell’architetto risulta determinante. Visto che la politica è lontana dall’ascolto, gli architetti possono rappresentare una grande opportunità anche per la politica stessa.

In quali luoghi sono avvenuti gli ascolti?
Abbiamo scelto di fare cinque “Progetti sperimentali”: in Sicilia, a Gibellina, nella Valle del Belice, con l’intervento nel teatro incompiuto di Pietro Consagra; in Sardegna per la piana di Ottana; nelle Marche, a Camerino, all’interno della zona colpita dal terremoto del 2016-2017; poi è stato prodotto anche un lavoro con le scuole di Matera per gli scali ferroviari di Ferrandina e Grassano. Concluderemo andando nelle Foreste Casentinesi fino a Cesena.

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