Coronavirus/1. Cucinella: per gli architetti il lavoro in studio è insostituibile, lo smart working non può funzionare

Pubblicato
31 Mar 2020

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«Lo smart working – chiarisce l’architetto bolognese – è un metodo di lavoro che apre scenari interessanti e sicuramente da migliorare e considerare per il futuro ma che non può sostituire completamente il rapporto sociale del nostro lavoro»

Di Mariagrazia Barletta

Oltre ad una riflessione più ampia sulla capacità degli ospedali di adattarsi a situazioni sempre più difficili, l’emergenza da coronavirus suggerisce la creazione di una rete sanitaria capillare, con centri di assistenza diffusi sul territorio, spazi anche ibridi, dotati di luoghi per lo stare insieme: delle «case della salute», che insieme all’assistenza domiciliare favorita dalla nuove tecnologie, migliorino l’accesso alle cure riducendo lo stress per i malati. A dirlo è Mario Cucinella che intreccia alcune riflessioni sul prossimo futuro, suggerite dall’emergenza epidemiologica, che deve indurci a un nuovo «passaggio culturale», afferma. Una riflessione che passa attraverso alcuni progetti in corso dello studio MCA – Mario Cucinella Architects, tra cui il Nuovo ospedale del Sud Salento a Maglie (Lecce) (rappresentato nell’immagine) , di recente aggiudicato allo studio MCA, vincitore con Aicom, Rina Consulting, Gae Engineering, Enzo Rizzato e Mic – Mobility in Chain (consulente), della gara bandita dall’Asl di Lecce. E, tra una domanda e l’altra, l’architetto non perde l’occasione per ricordare che «ricostruire i territori è un’emergenza equivalente a quella che stiamo affrontando».

«Il silenzio sul Centro Italia dovrebbe imbarazzare chiunque», aggiunge subito dopo. «Si sono susseguiti quattro commissari per non fare quasi nulla. Le risorse non mancano ma la macchina si inceppa su una burocrazia che ormai nessuno controlla più, nessuno sa cosa deve fare. Proprio questi giorni ci insegnano che la rapidità d’azione è fondamentale, il meccanismo va ripensato: non è possibile ingarbugliare meccanismi di una burocrazia perversa che ormai non portano a niente». Tante le riflessioni che l’emergenza suggerisce: dalle questioni climatiche e ambientali che con «soluzioni concrete» devono seriamente entrare nell’agenda politica del Paese all’indifferibile problema della dignità degli spazi carcerari, «ormai uscito anche dal dibattito tra architetti», ma che riaffiora con le recenti rivolte, fino alle implicazioni del lavoro in smart working.

Architetto, come ha riorganizzato il suo studio in seguito all’emergenza da Covid-19?
Abbiamo chiuso già quattro settimane fa l’ufficio di Milano e da dieci giorni quello di Bologna (la conversazione con l’architetto è avvenuta lo scorso 23 marzo, nda). Abbiamo dato a tutti la connessione al server dell’ufficio. Negli uffici non c’è nessuno ma siamo tutti connessi, con i limiti che questo comporta.

È possibile far fronte agli impegni di un grande studio lavorando al 100% in smart working?
Lo smart working è interessante, ma in realtà in un lavoro come il mio si può fare parzialmente perché parliamo di un lavoro di relazione, di scambio costante e quotidiano attraverso mille forme: dal prendere insieme un caffè alla discussione su un progetto. Questa parte di socialità con lo smart working non c’è. Anche io ho vissuto fino a poco fa la pressione in studio e la frenesia che ne deriva, ma in fondo è anche vero che è quel sistema frenetico a generare creatività, idee e proposte innovative. Quindi questa modalità di lavoro può andare avanti per un po’, ma non a lungo. La progettazione ha bisogno di dialogo, del disegno “fisico” e della sua interpretazione.

La riorganizzazione del lavoro in totale smart working, seppure dettata da una triste emergenza, può essere anche vista come un’occasione in questo momento?
Seppur forzato, lo smart working credo abbia aperto degli scenari interessanti. Mi piacerebbe che alcune figure dello studio, che siano uomini o donne poco importa, possano passare più tempo a casa per gestire la famiglia. Trovo che sia un aspetto molto interessante di questa vicenda che sicuramente ci permetterà di fare una riflessione per alcuni filoni dello studio. In maniera diffusa direi che non è possibile applicarlo, perché ha delle implicazioni negative, ma in un’organizzazione pensata per una migliore gestione del tempo da parte delle persone, credo che sia molto importante.

Il Governo ha fermato in tutta Italia, fino al 3 aprile, i cantieri edili, lasciando proseguire i lavori di ingegneria civile. Cosa ne pensa?
Un atto necessario sicuramente: la popolazione che lavora nei cantieri, dagli elettricisti ai cartongessisti, a quelli che fanno il cemento, etc.., si muove su un territorio vasto. Dobbiamo prendere atto che fermarsi è l’unica battaglia possibile per contrastare questo virus e quindi speriamo che, nella diligenza di tutti, lo si faccia con serietà per evitare che questi cantieri restino chiusi a lungo, perché un cantiere è anche una fonte di reddito per le famiglie, non si può immaginare di prolungare in eterno il fermo. Sono tante le categorie che vi lavorano: dai più alti specialisti a quelli che fanno un lavoro più semplice e va data loro una mano, su questo non c’è dubbio.

All’estero qual è la situazione: vanno avanti i vostri lavori?
Noi a gennaio abbiamo anche vinto una gara in Arabia Saudita. Il lavoro in Albania per il momento va avanti, dipenderà molto da cosa succederà nei prossimi giorni.

L’emergenza chiama in causa il tema degli ospedali: secondo la sua lunga esperienza in questo campo, la buona progettazione può favorire la gestione di grandi emergenze come quella in corso?
La buona progettazione può sempre favorire la gestione di situazioni difficili perché è destinata sempre al miglioramento delle criticità degli ospedali. Negli ultimi anni si lavora già con l’idea che all’interno di un ospedale possano cambiare delle situazioni con la conseguente necessità di spostare, ad esempio, le sale operatorie o cambiare le degenze. Gli edifici di ultima generazione non sono più strutturati in modo rigido come una volta, ma sono già pensati per adattarsi alla rapida evoluzione delle cure e per affrontare delle sfide nuove, ovviamente quella del virus è molto particolare. Poi ci sono – e lo dico con grande fierezza – ospedali del Novecento, come il Sant’Orsola di Bologna, che negli anni hanno fatto un grande lavoro di adeguamento alle nuove tecniche di cura, sono vecchi ospedali che stanno reggendo. Molto dipende anche dalla capacità delle risorse umane di gestire l’ospedale, che poi è il grande problema delle strutture sanitarie. Lo vediamo alla luce di quello che è successo: molti ospedali sono riusciti a convertire molto velocemente reparti che erano destinati alle normali degenze, ma questo è dovuto fondamentalmente alla capacità tecnica e di conoscenza delle persone che lavorano all’interno degli ospedali.

Il progetto per il nuovo polo chirurgico e delle urgenze dell’Ospedale San Raffaele a Milano se non sbaglio è proprio concepito per ottimizzare i tempi d’azione sul malato. È così?
Al San Raffaele il progetto del pronto soccorso, che è enorme, parte dall’idea che l’emergenza venga affrontata al piano terra, dove chi entra viene trattato subito in base alla gravità della situazione, quindi in questo grande piano orizzontale che ha tutte le specialità, si lavora per intensità di cura e non per specialità di cura. Questo cambia la struttura di un pronto soccorso. Tutto ciò nasce da una parte dalle esigenze e dalle esperienze delle persone che gestiscono gli ospedali e dall’altra dal nostro saper interpretare queste esigenze al fine di rendere queste macchine efficientissime. Con la direzione del San Raffaele e con i primari abbiamo studiato una modalità di accesso ai corridoi che riduce da 60 a 30 metri il passaggio che permette ad un malato in situazione di gravità di entrare in sala operatoria. E quei 30 metri in meno consentono di risparmiare dieci secondi, che però possono salvare la vita. Poi c’è tutto il lavoro che viene fatto per umanizzare l’ospedale per i malati, ma non solo, l’ospedale è una macchina per tante figure: il malato, i medici, gli infermieri, i visitatori, i bambini, insomma è una città meravigliosa.

Come si declina l’azione curativa dell’architettura in un ospedale all’avanguardia?
Le cito solo una frase della dottoressa Gastaldi, proprietaria del gruppo San Donato (di cui fa parte l’Ospedale San Raffaele, nda), che mi ha detto: «Architetto mi raccomando, dobbiamo fare un edificio bello perché la bellezza dell’architettura è una forma di cura». Io prendo spunto da una frase detta da un medico. La qualità dello spazio, lo spazio esterno, lo spazio interno dell’ospedale, i colori, la modalità con cui sono progettate le stanze, le aree comuni: tutto questo deve dare dignità alle persone, deve rassicurare.

Come si applica tutto ciò al progetto che state portando avanti per il nuovo Ospedale del Sud Salento?
A Lecce abbiamo trovato una convergenza di intenti meravigliosa e una determinazione mai vista a fare un’architettura bella e a farla subito. Qualche giorno fa c’è stata la conferenza dei servizi via Skype per approvare il progetto e abbiamo raccolto anche le migliorie che ci chiedono i direttori sanitari. È chiaro che l’ospedale che costruiamo a Maglie è un ospedale fondamentale e costituisce una grande opportunità per quel territorio. Abbiamo un piccolo vantaggio: dovendo fare una struttura nuova affrontiamo direttamente i grandi temi con la migliore conoscenza e la migliore tecnologia.

Questa emergenza globale avrà secondo lei un impatto sulla concezione dei futuri ospedali?
Oltre alla riflessione più ampia sulla capacità degli ospedali di adattarsi a situazioni sempre più difficili, si apre uno scenario che introduce il tema delle cure e dell’assistenza diffuse sul territorio. Immagino un sistema ramificato come quello neurologico. Oggi con la diffusione del virus vediamo che molti sono curati da casa. Per molte malattie l’ospedale potrebbe uscire dai propri confini e portare la cura in un ambiente domestico. Grazie agli strumenti digitali un medico, che sia della mutua o uno specialista, può entrare nelle case attraverso uno schermo. Avere un’assistenza diffusa significa anche non investire inutilmente denari in opere faraoniche. La rete di assistenza sanitaria diffusa sul territorio potrebbe contare anche su luoghi più piccoli, delle “case della salute”: piccoli luoghi nei quartieri, diffusi nel territorio, in cui ci si può far curare per malattie che non sono da ospedale, dove le famiglie ricevono l’assistenza di cui hanno bisogno. Portare questi luoghi all’interno della città è anche un tema progettuale meraviglioso. Potrebbero essere dei luoghi ibridi, con l’asilo, il bar, dove la gente possa anche ritrovarsi per fare delle cose insieme. Immaginare un sistema sanitario ramificato che arrivi a costruire questi edifici sarebbe un grande progetto per il Paese.

L’emergenza, con la rivolta nelle carceri, ha ancora una volta messo in evidenza il tema della qualità di questi spazi. Qual è il suo pensiero in merito?
Ci siamo occupati di questo tema con una gara anni fa in Friuli e mi piacerebbe affrontarlo ancora. Il nostro progetto sostituiva le sbarre con vetri antisfondamento per rendere le celle meno anguste e terribili. C’erano luoghi dell’accoglienza dove far incontrare le famiglie, uno spazio per i giochi dei bambini, etc… Le strutture carcerarie italiane sono non inadeguate, ma di più, sono fuori tempo massimo a parte qualche eccezione. Lo dice anche la Costituzione: lo scopo è dare un’opportunità nuova alle persone all’interno di un sistema carcerario che è un sistema curativo e non punitivo. Gli edifici devono garantire tutta la sicurezza necessaria, ma devono anche essere la rappresentazione di un Paese che dà una possibilità a queste persone. All’interno di un sistema di giustizia che è necessario, non metto in discussione questo, c’è un aspetto di umanità da considerare. E allora l’architettura può dare risposte meravigliose, non c’è solo l’architettura della libertà: non ci sono solo musei, piazze, biblioteche, noi facciamo un’architettura per gli altri, invece questo è un tema su cui gli architetti non si sono più confrontati.

Secondo lei questa crisi globale porterà cambiamenti indelebili?
Mi sembra che tutti abbiano la ricetta del futuro, io sono più scettico e un po’ più realista. Non ci voleva il coronavirus per sapere che se fermi tutto l’inquinamento si riduce, però nessuno ha rinunciato a niente finora. Allora possiamo anche fare una politica degli alberi, che è una politica sacrosanta, ma è stata il grande alibi per non cambiare alcunché. Il problema dell’inquinamento è molto concreto, e allora il tema è: siamo disposti alla fine di questo percorso a rinunciare a qualcosa? Decidiamo che l’inquinamento è un problema? E allora bisogna cambiare le regole. Il punto però è che molti miei colleghi non capiscono che con vecchi strumenti e vecchie politiche non si cambia niente. E allora qui o decidiamo di affrontare un cambiamento che porterà anche a dei conflitti politici e a delle posizioni forti, oppure quando l’emergenza sarà finita il vecchio sistema ritornerà come prima. E allora: accettiamo pure la possibilità di disegnare uno scenario migliore, ma attenzione perché bisogna fare della resistenza e occorre un’azione collettiva minuta. Se il tema ambientale, quello climatico, il tema dello spreco riaffiorano con delle soluzioni concrete entrando nell’agenda della politica di questo Paese e nella coscienza dei singoli, allora forse qualche cambiamento ci sarà. Io spero ci possa essere un passaggio culturale e che si resti un po’ più concentrati sui valori essenziali, lavorando veramente per il bene comune.

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