Cucinella, cosa vuol dire davvero sostenibilità

Pubblicato
12 Oct 2020

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di Valentina Dalla Costa

[…] Al centro della ricerca di Mario Cucinella ci sono la progettazione olistica e la sostenibilità applicata su diverse scale di progetto: comun denominatore è l’impatto positivo a lungo termine che ogni edificio dovrebbe avere sull’ambiente e sulla sua rigenerazione sociale, economica, naturale e urbana. Per l’architetto però, anche la politica e l’amministrazione di un Paese devono tener conto di queste tematiche: parlare di sostenibilità significa anche parlare di tutela, di cultura. Significa mettere a disposizione dei propri cittadini le risorse migliori per poter vivere, crescere e prosperare.

Proviamo a dare una definizione e un contesto a questa parola, tanto abusata nell’ultimo periodo. Cosa vuol dire sostenibilità?
Perseguiamo da tempo questo tema, anche se sembra una novità del nostro tempo. In realtà, da sempre nella storia c’è stato un rapporto di complicità tra mondo costruito, clima, territorio e risorse. È una lezione che dura da millenni ma che nell’ultimo secolo abbiamo perduto in nome di una visione più tecnologica; è come se avessimo considerato natura e clima un sottoprodotto rispetto alla tecnologia, generatrice di un mondo dell’artificio che ha presentato un conto salato al pianeta. Quando si parla di sostenibilità si parla di conoscenza, non di tecnologia. Quando parliamo del rapporto col clima non parliamo di una app ma di capacità dell’architetto di capire i luoghi in cui lavora. E’ un tema vecchio come il mondo ma di attualità, perchè abbiamo perso conoscenza e consapevolezza; per molti anni abbiamo costruito, viaggiato, utilizzato risorse come fossero infinite e oggi ci troviamo di fronte a una scelta obbligata da dover fare. Parlare di sostenbilità significa parlare di empatia: dobbiamo ritrovare quella conoscenza per costruire in modo più efficace e meno impattante. Molto importanti sono la formazione e la conoscenza, i due fattori che faranno la differenza nei prossimi 20 anni.

Come continuare a progettare, ma facendolo in modo sostenibile?
A me piace essere realista. Costruire non è mai un’azione sostenibile, perché comunque si trasforma materia, ci sono processi industriali importanti e impattanti. Quel che possiamo fare è costruire meglio, consumando meno e pensando alle performance degli edifici, lavorando su due livelli: uno tecnico, perchè il progetto è fatto di prestazioni, e uno estetico. Abbiamo preso coscienza del fatto che si possa costruire meglio, il passo successivo è trovare linguaggi architettonici coerenti. Non abbiamo altra scelta, le risorse ambientali non ci permettono di avere un pensiero diverso da questo: col tempo ritroveremo i linguaggi corretti per i ter ritori e luoghi in cui il progetto sorge. Come tutte le cose, i cambiamenti sono processi lunghi da maturare e quello culturale necessita di più tempo e sedimentazione. Le nuove generazioni sono attente e consapevoli, questo mi fa ben sperare verso un mutamento positivo.

Se parliamo di nuove generazioni e di consapevolezza, è inevitabile citare la Sua SOS, School of Sustainability. Come procede il progetto?
La scuola nasce all’interno del nostro studio da un’esigienza e da un senso di responsabilità sociale. Abbiamo tutti gli strumenti conoscitivi, ormai consolidati, ed è giusto che questo sapere sia condiviso con i giovani neolaureati, in modo da essere preparati ad affrontare i cambiamenti in atto. E’ un percorso che inizia con 4 mesi legati alla parte teorica, alla simulazione; vogliamo che gli architetti siano anche un po’ ingegneri, in grado di anticipare i fenomeni: devono capire la fisica degli edifici, che performance può avere una struttura e perché. Vogliamo metterli nelle condizioni di sapere davvero cosa stanno facendo, attraverso un percorso dedicato alla formazione teorica. A seguire sviluppiamo progetti molto concreti. Abbiamo di recente inaugurato KABOOM, un’installazione sull’economia circolare in piazza dell’Unità a Bologna, per ragionare sul tema della plastica non come rifiuto, ma come risorsa. Di progetti ne abbiamo fatti tanti, gli studenti sono sempre coinvolti e devono essere in grado di parlare con committenze e amministrazioni. E’ un percorso che insegna loro quanto sia complesso questo mestiere, che per essere migliorato in futuro deve sorreggersi su basi solide che vertono su questi temi. Fare l’architetto oggi richiede trasversalità e conoscenza, perché il progetto ti mette in relazione con ambiti spesso molto diversi tra loro.

[…] Discorso valido per amministrazioni del Nord Europa, in Italia forse meno… Concorda?
In Italia siamo distratti da problemi totalmente inutili. C’è un problema di efficienza: come è possibile che con così tanti dipendenti pubblici e altrettanti al servizio del Governo, il Paese comunque non funziona? E’ evidente che il dibatitto sia diventato esclusivamente estetica del linguaggio. I contenuti non ci sono e ormai assistiamo solo a un litigio continuo. I programmi elettorali mi sembrano indifferenti e questo è sintomo del malessere del Paese: non ci sono idee sul tavolo. E’ da oltre 50 anni che si vive l’esclusione dell’architettura dai tavoli politici. Ha mai sentito parlare di architettura da un Primo Ministro? Io no. Berlusconi parlava di edilizia, ma non è la stessa cosa. Non è mai stata nell’agenda di un Governo, eppure l’Italia è uno dei Paesi con le architetture più belle al mondo. Questo dà l’idea dell’ignoranza e dell’indifferenza che c’è. Il nostro Paese non ha nemmeno una formula rodata che organizzi concorsi pubblici.

Si riferisce a Genova?
Quello è stato un caso estremo. Per quanto io ami estremamente il mio maestro (Renzo Piano, n.d.r.), non è colpa sua. Ha fatto un gesto di generosità che va colto per quel che è. Il problema non è l’atto di responsabilità, ma il fatto che la politica non abbia saputo far altro che prendersi il progetto: se Renzo Piano non l’avesse donato, non sarebbero nemmeno stati in grado di organizzare un bando. Il Paese si è riconosciuto nel ponte, fatto contro tutte le regole burocratiche in essere, e questo è un paradosso estremo. Da un lato si deve considerare positivamente l’aspetto tecnico – abbiamo delle imprese straordinarie capaci di fare, bene e velocemente – ma dall’altro lato questo ponte rappresenta il più grande fallimento della politica italiana. Non siamo capaci di scegliere, dopo aver istituito una gara. Non può questa essere la base su cui si fondano le decisioni di un Paese. Ci sono poche idee, e anche molto confuse.

Come si potrebbe cambiare?
Basta guardare i nostri vicini di casa. In Francia, in Germania, funziona così: si fanno bandi e concorsi, ci sono procedure smaltite in modo molto veloce, ed è possibile far crescere una generazione di architetti e di imprese. Da noi non è possibile, perchè se non facciamo gare e non affidiamo lavori velocemente alle imprese, è difficile creare futuri professionisti in grado di gestire progetti complessi. Se non si alza il livello dell’architettura in un Paese, questo è destinato a morire, come il nostro. In Italia l’architettura è un accessorio secondario. Di fondo, restiamo un Paese che consuma le parole, che parla di rigenerazione urbana e di sostenibiltà, ma poi di fatto si resta sempre fossilizzati dove eravamo. E’ stato fatto poco, quasi niente. Quand’è stata l’ultima volta che abbiamo costruito un museo? Il Maxxi di Zaha Hadid, e ci sono voluti 18 anni per realizzarlo. Inoltre, l’ultimo concorso risale a vent’anni fa. In Francia c’è una legge, voluta da un Ministro della Cultura e non delle Infrastrutture, il che è ben diverso, che dice ‘l’architettura è l’espressione della cultura di un Paese’. Semplice. Lo Stato quindi si deve rappresentare attraverso le biblioteche, le scuole, gli ospedali, i musei. Partendo da questo presupposto, proviamo a capire come l’Italia si rappresenti oggi attraverso le sue infrastrutture. Siamo tutti complici di questa storia: il 60% delle nostre scuole sono inagibili, cadono a pezzi, e nessuno fa niente. Questo è un atto di una gravità enorme. Abbiamo sempre fatto finta di nulla, ignorando il problema.

La soluzione sta quindi nelle iniziative private?
Possono solo rappresentare casi sporadici. Il nostro studio, ad esempio, sta realizzando un museo a Milano, il Museo Etrusco, grazie alla filantropia di una famiglia che vuole investire in un museo sulla cultura fondativa dell’Italia. Io non sono un catastrofista, ma dico solo che quando si parla di sostenibilità bisogna farlo in modo serio, perchè si parla della vita delle persone: il tema della qualità urbana, dei consumi e delle emissioni, progettare per una vita migliore della società, passa attraverso delle decisioni politiche. Non è un tema che può essere rimandato solo agli architetti.

Qual è un progetto che le sta particolarmente a cuore?
Sicuramente TECLA, un habitat eco-sostenibile stampato in 3D. Tra circa un mese presenteremo ufficialmente il risultato del lavoro fatto insieme a WASP: abbiamo sviluppato un prototipo innovativo di casa stampata in 3D e realizzata con il materiale più antico del mondo, la terra. TECLA risponde alle necessità dei cambiamenti risultati dai nuovi bisogni delle comunità, in cui la tecnologia si mette al servizio dell’architettura empatica. E’ stata realizzata utilizzando Crane WASP, stampa 3D di WASP per l’edilizia. Il materiale è la terra cruda, reperibile sul luogo di costruzione: non presenta alcuna forma di scarto e si adatta a molteplici condizioni ambientali. Inoltre, l’intero processo può essere realizzato e auto-prodotto con il supporto tecnologico in dotazione con il Maker Economy Starter Kit di WASP. In questo modo si fornisce un modello sostenibile in grado di dare un impulso importante alle economie locali e nazionali, migliorando il benessere della comunità coinvolta.

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