Genova trovi il coraggio per scegliere il suo futuro

Pubblicato
25 Nov 2019

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Intervista di Andrea Plebe

Mario Cucinella, 59 anni, uno degli architetti italiani più noti e apprezzati a livello internazionale, è ospite oggi alle 21 a Palazzo Ducale di Genova del Big November promosso dalla Fondazione dell’Ordine degli architetti. «Di fronte alle sfide che abbiamo davanti, alle scadenze del 2030 e al 2050 sui temi energetici e ambientali, di riduzione delle emissioni di Co2 e di costruzione di una nuova generazione edifici, mi sono chiesto: da dove prendiamo la conoscenza che abbiamo perduto nei 200 annidi rivoluzione industriale, tutti dedicati allo straordinario sogno dell’uso della tecnologia, che poi ha presentato il conto ed è diventato un incubo, con inquinamento, traffico, eccetera? Una grande lezione viene dal mondo vegetale, che a differenza dell’uomo non può scappare dal proprio ambiente: lì c’è un’enorme capacità di adattamento al clima che può ispirarci. Insieme racconterò la storia millenaria parallela di edifici costruiti nel mondo senza energia, che sfruttavano sole, vento, luce: c’è una grande conoscenza che dobbiamo esplorare di nuovo, senza nostalgia, per guardare al futuro». Nell’occasione, Cucinella illustrerà alcuni suoi progetti, l’Università in Marocco, ispirato al mondo dei cactus, la Torre Unipol a Milano, alcune scuole innovative.

Lei è nato a Palermo, però è cresciuto a Genova. «Mia mamma è di Nervi, mio padre era di Cinisi e voleva che io e la mia sorella gemella Giulia nascessimo nella “terra madre” della famiglia. Poi fino ai 25 anni ho vissuto fra Campo Ligure e Genova. Sono figlio adottivo di una città in cui poi sono cresciuto. Palermo e Genova sono due fronti dello stesso mare, dirimpettaie, anche se un po’ lontane».

Che cosa ricorda di quegli anni a Genova? «Sono arrivato alla fine delle elementari, a Genova ho fatto le medie, il liceo artistico, poi l’Università fra gli anni Settanta e Ottanta. Erano gli anni di piombo, dell’assassinio di Guido Rossa, delle manifestazioni, di grandi lotte, c’era una presenza forte della sinistra, un grande fermento. Anni difficili, impegnativi ma interessanti. Sulla trasformazione del porto, sul quartiere di Pré si era aperto un grande dibattito, con la presenza di Giancarlo De Carlo all’Università. Genova cercava di riposizionarsi in una nuova vita, con le industrie pesanti che erano in grave difficoltà».

Giancarlo De Carlo, uno dei suoi maestri. «Dico sempre che non sono stato un bravo allievo… Stavo finendo gli studi universitari quando è arrivato De Carlo e allora ho deciso di fare un anno in più: volevo studiare con lui. Era un personaggio straordinario, un intellettuale, che aveva molta misura nel lavoro. Io a

23-24 anni scalpitavo: durante l’università ho fatto un lungo periodo in America cercavo un mondo che a Genova non riuscivo a trovare. De Carlo aveva una lentezza positiva, ci chiedeva di essere riflessivi. I maestri lasciano eredità, non necessariamente nel momento in cui sei accanto a loro».

Poi lei è stato chiamato da Renzo Piano. «Già da studente. Venivo dall’accademia ed è stato come salire su un treno ad alta velocità. Mi sono laureato il 16 dicembre e l’8 gennaio era già da lui. De Carlo e Piano sono le due anime della mia vita professionale: l’attenzione alle persone, la partecipazione da una parte, grande velocità e creatività e creatività. Due maestri molto diversi, ma complementari».

Quanto è rimasto a lavorare nello studio Piano? «Quasi a cinque anni. Allora era un gruppo piccolo di 15 persone, sono stati anni molto belli, intensi, ho lavorato a stretto contatto con lui. Tre anni li ho passati a Parigi, Genova mi stava stretta, non vedevo altre opportunità. Ho scelto Parigi anche per scoprire il mondo. A Genova sentivo la fatica di una città che poi con le Colombiane ha cambiato volto, ma in seguito è successo molto poco. Può essere rassicurante, ma anche inquietante. In quel periodo non ricordo di aver fatto vacanze, avevo il desiderio di “rubare” tutto quello che potevo del mestiere».

Poi se n’è andato. «Era necessario mettersi alla prova, i maestri sono importanti ma impegnativi. Mi chiedevo: sono bravo io o sono bravo perché lavoro con Renzo Piano? C’è un momento in cui devi andare, e basta».

E si è fermato a Parigi. «Un po’ incoscientemente. Ho lavorato solo sui concorsi, non avevo commesse, clienti. Pensare che ancora adesso, in Italia, fa notizia che si faccia un concorso… A Parigi sono stato dieci anni intensi di lavoro faticosissimo. Ma ho avuto anche fortuna. Piano stava per cambiare ufficio e mi ha regalato dei mobili. Poi un architetto francese ha lasciato lo studio, in una villa di Le Corbusier, tutto nel giro di pochi giorni. Ho pensato: non mi potrà andare poi così male con due padrini così importanti. Poi nel 2001 ho pensato che era tempo di tornare a casa».

Non è tornato a Genova… «Non ho avvertito il rilancio della città, anche se i temi erano tutti lì. Prima di tornare mi avevano invitato a partecipare al concorso per Ponte Parodi. In gara c’erano De Carlo, Koolhaas con Boeri. E stata una bella gara, fa sempre piacere quando vincono colleghi bravi (lo studio Un di Van Berkel & Bos). E un peccato però che Genova abbia dimostrato di non essere all’altezza di un cambiamento così importante. Come per l’Hennebique, non è successo nulla. Genova è bellissima, ha una costa straordinaria, ma è ferma nel “vorrei ma poi in realtà non lo faccio”. Negli ultimi decenni ha deciso di perdere, di non essere una protagonista, nonostante abbia grandissime potenzialità, al centro del Mediterraneo. La Foce è un grande parcheggio vuoto davanti al mare, la Sopraelevata è sempre al centro dei dibattiti. De Carlo la riteneva un grande segno della modernità, come fu anche il Ponte Morandi, tragicamente crollato. Scelte comunque coraggiose, nel bene e nel male».

Come si esce dallo stallo? «Certe opere richiedono imprenditori e amministratori che ci credano. La politica deve essere visionaria, non amministrativa, non limitarsi a gestire la quotidianità. Un po’ bisogna sognare, che è ecologico ed economico… E poi bisogna che ci sia continuità amministrativa. L’urbanistica ha bisogno di tempi lunghi, serve un grande patto sociale».

Come mai ha scelto Bologna, alla fine? «Avevo un progetto nelle Marche, Bologna era l’aeroporto di riferimento. Ho trovato una città non ostile, accogliente. Purtroppo non c’è il mare, allora mi sfogo andando in barca a vela. Cercavo un posto dove le persone ti salutano, dove i rapporti sono più semplici. Alla Biennale di Venezia, al Padiglione Italia di cui sono stato curatore, ho voluto mostrare come l’Italia sia un paese speciale formato da un sistema di città in cui lavorano tanti giovani architetti bravi, che fanno un lavoro civico, reale».

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