Inimmaginabile, di Mario Cucinella

Pubblicato
08 Jun 2020

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Lo sentiamo ripetere ovunque: quello che sta succedendo alle nostre vite in questo particolare momento della storia era inimmaginabile solo pochi mesi fa. Ma che cosa è successo alla nostra immaginazione? Quello che ci lascia più disorientati è questa interruzione del futuro, che avevamo pensato e progettato diversamente. Forse l’errore è stato pensare al futuro solo come estensione, come prolungamento del presente: una sorta di pianificazione del futuro, che per certi versi è un modo per controllarlo, per rassicurarci che il futuro è quello che stiamo vivendo, ma proiettato in avanti, come se il presente fosse l’unica strada da percorrere. Invece abbiamo scoperto l’imprevedibile, qualcosa di cui ci eravamo dimenticati nella nostra proiezione di futuro. In questi ultimi decenni la corsa della vita è stata frenetica, alla ricerca di qualcosa che ancora oggi ci domandiamo che cosa fosse: maggiori profitti? Una vita più globalizzata? Una presenza bulimica sui social media? Una continua ricerca dello stupore spesso diventato banale e inutile? Una rincorsa per fare di più, consumare di più, sprecare di più? Una ricchezza sempre più esclusiva?

Abbiamo progettato città tutte verdi e smart, abbiamo immaginato cittadini felici all’interno di scenari in cui natura e città si abbracciano in una sorta di falsa amicizia. Abbiamo venduto illusioni, non sogni, e questo ha generato enormi frustrazioni. Dalle nostre città felici abbiamo escluso gli esclusi, le periferie, gli edifici poveri, i luoghi di segregazione, i paesaggi a rischio idrogeologico, la poca dignità di tanta architettura, l’instabilità sismica delle nostre scuole, l’abbandono delle aree interne, la povertà edilizia di molti ospedali, infrastrutture, ponti. Tutto questo non l’abbiamo voluto vedere, non era nel nostro grande sogno del futuro, non era presente nelle immagini felici di città moderne, piene di tecnologie, di tracciamenti digitali, di nuovi e inutili gadget.

Siamo andati avanti senza guardare intorno a noi, senza vedere quante cose abbiamo perduto per una smisurata fiducia nello sviluppo. E il problema sta proprio lì, nella definizione di sviluppo. Negli Scritti corsari di Pier Paolo Pasolini c’è un appunto sul rapporto tra l’idea di sviluppo e quella di progresso. Progresso è una parola meravigliosa che non è più utilizzata, indica valori condivisi, distribuzione della ricchezza e una società meno prigioniera dell’inutile.

Quale sarà la nostra casa?

La pandemia da COVID-19 ci ha colti impreparati perché non l’avevamo mai immaginata. Non potevamo immaginare di dover passare un tempo così incredibile nelle nostre case, vivere tra le mura domestiche senza poter uscire. E abbiamo scoperto che molte case non sono fatte come vorremmo. Nel percorso di sviluppo che abbiamo seguito, la casa si è trasformata in un prodotto edilizio: non più un luogo della nostra vita, ma un prodotto, un prodotto come altri. Troppo presi da una rincorsa al futuro, non ci siamo accorti che noi siamo cambiati, è cambiato il nostro tempo, il nostro lavoro, la struttura sociale delle famiglie, ma la casa no. È rimasta sempre una sequenza di vani, uno standard, come se noi fossimo standard e la modalità di condurre la nostra vita fosse solo una questione di vani. Così oggi molti scoprono i limiti di questa edilizia povera, poco rappresentativa di una società in cambiamento, come se edilizia e architettura fossero prive di connessioni. Potremmo obiettare che nei centri storici abitiamo da secoli e gli edifici sono sempre quelli. Ma quanto lavoro è stato fatto per il continuo adattamento alle nuove esigenze abitative? Ospedali trasformati in residenze, caserme recuperate per realizzare musei, mercati coperti trasformati in piazze pubbliche. Abbiamo costantemente costruito l’adattamento. Ma i nostri tempi non hanno precedenti per numerosità della popolazione, per dimensione delle città, per livello di sviluppo, di ricchezza e di povertà.

Ma allora quale sarà la nostra casa? Su questo punto dovremmo ascoltare di più i desideri delle persone, comprenderne meglio i nuovi bisogni. Progettare una casa non vuol dire definire ogni singolo spazio in modo da imprigionare i comportamenti altrui. È ancora molto presente negli architetti l’idea di governare i comportamenti, di progettare città come se fossero una cosa propria. Questo atteggiamento non è più accettabile, appartiene al passato, significa anteporre il proprio ego a quello di tutti gli altri, cercando una forma psicologica di dominio. La storia ci insegna che le città si fanno insieme e che alcuni esperimenti fatti sono stati un fallimento.

Per tornare al nostro punto, la casa dovrebbe avere dei margini di adattabilità ai diversi modi di abitare, come dice bene il prof. Mario Abis nella sua ricerca Housing evolution. Oggi aspirazioni, desideri, modalità culturali dell’abitare sono esclusi dalla progettazione delle case. Anche il tema della casa accessibile è completamente dimenticato. Il pubblico ha smarrito l’idea sociale della casa, ha deciso di non essere un attore determinante nel mercato, abbandonando di fatto un ruolo politico tanto sociale quanto culturale. È necessario tornare a una nuova stagione della casa sociale, che è il primo tassello del welfare. Si è perso il principio dell’abitare insieme come ci hanno insegnato per secoli le nostre città. Si abita insieme se c’è un progetto politico e sociale. L’architettura è cultura e bene comune e rappresenta le ambizioni di una società, la bellezza è la rappresentazione di noi nel modo in cui vogliamo esprimerci, anche attraverso la costruzione dello spazio.

All’interno, non al centro del mondo

Oggi questa brusca frenata nel nostro immaginario ci ha ricondotto a riflettere su alcuni pilastri di cui sembrava impensabile discutere: dall’abitare alla città, dalla natura all’inquinamento, dalla mobilità all’ambiente, dalla scoperta della fragilità sociale e della precarietà di molte famiglie, alla scuola, al lavoro e allo smart working. Non era mai successo che in tempo così breve ci ponessimo così tante domande. L’aspetto più interessante di questa tragedia è stato aver scoperto il bisogno di ripensare lo spazio nel senso più ampio del termine. È emerso con grande forza il bisogno di architettura di qualità, il bisogno dello spazio pubblico, di piazze, strade, musei, bar e ristoranti. Di colpo quello che ci sembrava normale ha smesso di esserlo. Questa considerazione mette al centro del dibattito un ritorno alle competenze, alla conoscenza, all’architettura, per troppo tempo rimaste marginali nel dibattito pubblico. Oggi i sindaci si domandano se non sia meglio aprire a una nuova mobilità lenta in bici con percorsi pedonali, lavorare per la diminuzione delle auto e una decisa riduzione dell’inquinamento in città.

Ma questi punti, che rappresentano una vera idea di progresso umano, erano già nell’agenda politica: ad esempio il Green Deal europeo lanciato a fine 2019 si propone di arrivare ad azzerare l’impatto climatico dell’UE entro il 2050, mentre l’Agenda 2030 dell’ONU ha di mira gli Obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs), tra cui la riduzione delle disuguaglianze sociali, un sistema sanitario più diffuso e accessibile, una riduzione della povertà edilizia, alimentare ed economica, una scuola accessibile a tutti, sicura e dignitosa. Libro dei sogni? In realtà oggi dobbiamo chiederci se veramente tre mesi fa era questa la nostra idea di futuro, se davvero volevamo cambiare rotta. Probabilmente no: non si vedevano segnali di cambiamento, o forse erano solo un modo per giustificare uno sviluppo insostenibile.

Sapremo progettare un nuovo futuro? La parola è inflazionata e il filosofo Petrosino ricorre al termine “avvenire”, che lascia uno spazio di imprevedibilità più ampio rispetto al concetto di futuro come proiezione del presente e associa l’idea di progresso sociale, umano. Dobbiamo rivedere la fiducia smisurata delle nostre capacità tecnologiche: siamo fragili e non possiamo controllare tutto e tutti. Nel Palacio nacional di Città del Messico, la sede del Governo messicano, un mural di Diego Rivera raffigura un uomo seduto su una macchina che manovra tutto ciò che gli sta intorno, dall’universo alle molecole, dalla natura agli animali. È la visione che ha dominato gli ultimi secoli: l’uomo al centro dell’universo ha cercato disperatamente di controllare ogni cosa, e provandoci ha perso il controllo. Scopriamo che non conosciamo molte delle cose che ci circondano, non conosciamo per esempio il mondo complesso delle piante, che da milioni di anni hanno sviluppato straordinarie capacità di adattamento al clima, di relazione e di intelligenza diffusa, come spiega il botanico Stefano Mancuso. Oggi quell’uomo che governa l’universo non può più esistere; perciò dobbiamo cambiare il nostro punto di vista e il rapporto con l’universo, sapendo che siamo “solo” parte del tutto. Anche se non si è mai realizzata, la prospettiva del controllo totale ha condotto a infrangere il rapporto tra umanità e natura, manipolando la vita e asservendola per aumentare le disuguaglianze.

Oggi il mondo, la nostra casa comune, ci impone una riflessione per sopravvivere a noi stessi. L’uomo al centro di tutto è stato un sogno di sviluppo che si è trasformato in un incubo. Dovremmo riposizionarci non più al centro, ma all’interno di un ecosistema di cui facciamo parte, composto per l’85% dal mondo vegetale, per il 3% dagli esseri umani e per il resto dal mondo animale. A partire da questa visione, che cosa possiamo fare? Costruire senza distruggere, costruire per il bene comune, far crescere l’umanità nella conoscenza, perché questo farà emergere un nuovo mondo, più consapevole delle nostre fragilità e pronto all’imprevedibilità come dimensione della vita dell’umanità. Nella consapevolezza di appartenere a un ecosistema, potrà nascere un nuovo progresso sociale, una politica di empatia, una nuova amicizia con la natura.

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