La sostanza del costruire: Padiglione Italia

Pubblicato
23 Aug 2018

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Di Francesca De Filippi e Marisa Santin  

Mario Cucinella è senza dubbio una delle figure più attive nel dibattito attuale dell’architettura, a livello nazionale e internazionale. Lo dimostrano il suo curriculum, la numerosità dei cantieri in opera, la lunga serie di premi e riconoscimenti, la dinamicità del suo Studio in costante crescita. Non solo; lo prova anche la sua straordinaria capacità di convogliare attenzione su temi – come la sostenibilità – che pongono i professionisti di fronte a responsabilità e a sfide dirimenti per il futuro. Convinto dell’impatto che ogni progetto ha nella rigenerazione degli spazi, Cucinella sostiene con forza la necessità di mettersi in ascolto dei luoghi e delle persone con senso civico ed ‘eccezionale’ normalità, allontanando la tentazione di un’architettura autoreferenziale, del tutto fine a se stessa. Da qui nasce il concetto cardine del suo impegno e del suo lavoro di progettista e di educatore, quell”empatia creativa‘ che egli non solo promuove, ma pratica con generosità e contagiosa passione. Molti sono gli esempi: dal Laboratorio di Architettura Partecipata a Pacentro, ai lavori del G124 per il recupero delle periferie in Italia; dai progetti per la scuola a Guastalla o a Gaza, alle “abitazioni per la pace” per accogliere le famiglie di rifugiati e richiedenti asilo in Basilicata. Vale la pena ricordare due progetti speciali nati nel suo Studio MCA negli ultimi anni: Building Green Futures, organizzazione no-profit il cui scopo è integrare cultura ambientale e tecnologia per un’architettura che garantisca dignità e qualità all’abitare, e S.O.S. – School of Sustainability, una scuola ‘a bottega’, con l’obiettivo di costruire una cultura della sostenibilità attraverso il dialogo tra figure e competenze diverse, con in comune una visione del futuro. Non stupisce dunque che per il Padiglione Italia siano stati scelti progetti capaci di raccontare l’architettura come ascolto e atto collettivo: una moltitudine di storie minori che del concetto di empatia creativa incarnano l’essenza.

Come Arcipelago Italia interpreta il tema Freespace di questa Biennale?
Raccontiamo, attraverso l’architettura, questa idea di spazio libero concentrandoci sulle aree interne del nostro Paese, su quella rete di piccole città – e degli spazi liberi esistenti tra queste piccole città – che caratterizza l’entroterra italiano. I progetti, selezionati attraverso una call, vogliono parlare di quanto l’architettura possa influenzare lo spazio pubblico anche attraverso inserimenti e interventi minimi, realizzati magari nei piccoli centri storici. Progetti di dimensioni ridotte ma capaci di influenzare radicalmente l’utilizzo dello spazio pubblico.

Il racconto delle aree interne dell’Italia e di questa dorsale di spazi e territori sembra tracciare un filo rosso con la scorsa Biennale, Reporting From the Front, nel raccontare lo straordinario potere che può avere l’architettura ‘in azione’. Sta cambiando il modo di fruire (e fare) architettura, da puro gesto creativo individuale ad atto collettivo?
Credo che stia cambiando la percezione del ruolo che un architetto ricopre e delle responsabilità che comporta l’atto stesso di costruire. Non so quale possa essere precisamente il tratto di continuità con la Biennale di Aravena, di sicuro condividiamo con Reporting from the Front e con il progetto di TAM per il Padiglione Italia che ci ha preceduto un’attenzione verso questioni che sono state in parte dimenticate. In Arcipelago Italia non ci sono temi particolarmente alla moda, ma piuttosto storie che a prima vista potrebbero sembrare marginali rispetto al dibattito pubblico, ma che si rivelano invece sostanziali nella vita delle persone e nel nostro mestiere. Nell’individuare i progetti per il Padiglione ci siamo concentrati più sulle architetture che sui nomi, valutandoli in base alla loro capacità di inserimento nel solco tematico tracciato da questa Biennale e senza preoccuparci di ‘invitare delle personalità’. Vogliamo dare un messaggio forte ai visitatori, soprattutto ai giovani, per ribadire quanto l’architettura sia una cosa seria e difficile. Disegnare e costruire qualcosa di glamour non fa automaticamente di te un architetto: un architetto è un soggetto della società civile che partecipa alla costruzione dello spazio e che può condizionare in negativo la vita delle persone lasciando delle brutte scenografie nelle città e nei paesi, o facendo dei danni al paesaggio. Ma può anche essere un creatore di spazi straordinari, capaci di rimanere indelebili nella memoria soggettiva e collettiva. Attraverso questa selezione vogliamo far capire quanto sia importante il nostro mestiere e quanta attenzione sia necessaria per farlo al meglio. Non è un problema di moda o di dimensioni, è un problema di sostanza: questo è il messaggio al centro del Padiglione, espresso attraverso progetti che possono sembrare piccoli in una mera logica da grandi eventi, ma che in realtà sono fondamentali per le comunità, perché raccontano quei gesti, quegli interventi, quelle attenzioni che fanno parte della vita quotidiana delle persone. In realtà è sempre stato così, ma abbiamo solo bisogno di riscoprire l’origine e il grande valore civico di questa professione.

Da tempo lei sostiene e promuove il concetto di “empatia creativa”, in cui il progetto è frutto dell’ascolto e della comprensione dei luoghi e delle comunità. Qual è il ruolo, la responsabilità del progettista? Quale il suo spazio di azione? In che modo può attuare questa azione partecipativa?
Il ruolo del Padiglione Italia è sempre stato quello di raccontare l’architettura contemporanea all’interno di un percorso, di una visione più ampia. La storia architettonica del nostro Paese si basa sulla rappresentazione delle sue comunità. Le nostre città sono belle proprio perché sono il risultato di un processo di partecipazione, di rappresentazione. In questi ultimi anni, invece, gli architetti hanno parlato molto e ascoltato davvero poco. I risultati sono sotto gli occhi di tutti, con un’architettura che è diventata di fatto sempre più autoreferenziale. Il lavoro del Padiglione . stato fatto proprio per mettere in risalto un elemento di empatia, ovvero l’entrare in relazione con i luoghi e con le persone, e di creativit., intesa non fine a se stessa, ma come strumento di interpretazione. La partecipazione non è semplice da attuare; non è sufficiente radunare le persone e individuare la soluzione a maggioranza. Il gruppo Ascolto Attivo nato nel 2008 su iniziativa di Marianella Sclavi, che fa parte del team interdisciplinare coinvolto nell’allestimento del Padiglione, parla proprio della fondamentale componente di ascolto che credo debba essere alla base della nostra professione. Le persone hanno tante idee, tante aspirazioni e soprattutto tanta voglia di progettare il nostro futuro: a ciascuno il proprio mestiere, con progetti che devono essere sì studiati da architetti, ma che devono vivere anche delle suggestioni nate dal dibattito e dalla comprensione dei luoghi. Fare architettura oggi richiede politiche di ascolto e anche una buona dose di umiltà. Personalmente mi sono sempre sentito lontano dalla figura dell’architetto arrogante che tutto sa e tutto decide. Credo che i tempi siano maturi affinché gli architetti svolgano il ruolo tanto importante che devono ricoprire attraverso processi di ascolto e di condivisione. L’architettura si fa per gli altri, non per se stessi. Quando progetto una scuola, un ufficio o un ospedale lo faccio per lasciare un’eredità ad altre persone. Credo che questa consapevolezza sia il tratto distintivo del Padiglione Italia 2018.

La call lanciata per Arcipelago Italia ha raccolto centinaia di candidature. Quali criteri avete adottato per la selezione dei partecipanti? Quale fotografia dell’architettura italiana contemporanea dobbiamo attenderci?
Abbiamo scelto circa 65 candidature sulle 600 ricevute, progetti che ci sembravano maggiormente empatici e più attenti al rapporto mai risolto tra l’architettura contemporanea e i luoghi storici. Hanno reso l’idea di un tessuto esistente, lontano dalle aree centrali del Paese, dove ci sono molti architetti che lavorano quotidianamente e che fanno delle cose nella misura giusta e necessaria per quei luoghi: progetti magari piccoli e caratterizzati da budget piuttosto limitati, che vanno dai 2-300 mila ai 2 milioni di euro, cifre che nel nostro settore si possono definire modeste. La fotografia emersa mette in risalto unagrossa frattura tra Nord e Sud, con un Nordest che ha investito molto negli ultimi anni nell’architettura del territorio, con grande qualità e ottimi processi di controllo. Il Trentino si è impegnato molto in questo senso, così come le zone centrali dell’Emilia-Romagna e delle Marche, dove importante è stato anche il ruolo degli industriali, che hanno costruito cose molto interessanti nell’ambito dei luoghi di lavoro. Scendendo verso sud lo scenario si fa piè difficile. C’è un’area molto scura e poco rappresentata in mostra che coincide proprio con il territorio del Centro-sud, da cui sono arrivate molte candidature, ma spesso con progetti di ‘villettopoli’, architetture molto personali che non abbiamo considerato aderenti alla tematica del Padiglione. Un Sud, però, capace anche di esprimere dei focolai interessanti e virtuosi. La Sicilia, ad esempio, sta vivendo un momento di grande rilancio soprattutto nelle zone di Palermo, Catania, Enna e Agrigento, dove molti giovani stanno lavorando in forma associativa attraverso un dibattito architettonico vivo e vivace. La Puglia ha sempre avuto esperienze degne di interesse e attenzione, mentre Sardegna, Calabria e Campania sono un po’ in affanno al momento; si sente qui la mancanza di progetti pubblici importanti, aspetto che restituisce bene la misura di quello che sta succedendo nel nostro Paese in termini di investimenti. Il piano dedicato alle periferie proposto recentemente dal Governo sta smuovendo qualcosa, ma se dovessi tracciare un bilancio della situazione attuale lo scenario sarebbe quello, non certo così confortante, appena descritto.

Sei collettivi, cinque progetti sperimentali, otto itinerari, quattro attività tematiche: come l’allestimento racconta questo viaggio tra passato e futuro, memoria e progetto?
Ho scelto sei gruppi che avessero le caratteristiche di empatia, di cura e di attenzione al disegno necessarie agli interventi che volevamo sviluppare, con la finalità di rilanciare quei territori e quelle aree, non di stupire con proposte fantasmagoriche. È stata una scelta curatoriale che non ha seguito la logica della gara. Abbiamo inoltre deciso di non affidare ad ognuno di questi gruppi un progetto specifico, perché il nostro obiettivo non era concepire una mostra di personalismi, quelli si fanno sulle riviste o comunque in altre sedi. Sono convinto che in un contesto come quello della Biennale, il Padiglione Italia debba piuttosto raccontare un modo di lavorare, un approccio ad un determinato problema. I diversi gruppi hanno quindi lavorato insieme, affidandosi anche ad esperti di altre discipline, dalla salute alle biblioteche, dalla mobilità alla sostenibilità, nella convinzione che lavorando insieme ci si possa contaminare positivamente, instaurando un rapporto dialettico che è già in sé una forma di partecipazione. Non è stato semplice all’inizio, perchè siamo tutti abituati a lavorare in modo più individuale, ma ci sono stati incontri e dibattiti che hanno aiutato il processo di condivisione e che ci hanno permesso di confrontarci proficuamente sui temi, sulle idee. Penso per esempio alla salute: in questo settore nodale della nostra società il ruolo degli architetti non si può esaurire nella mera progettazione di ospedali, bensì in un più ampio sforzo di analisi su quali siano gli spazi che dobbiamo immaginare in senso più complessivo ed articolato per un miglior servizio sanitario, più adeguato alle esigenze e alle priorità delle persone. Lo stesso discorso vale per la mobilità: non solo tram e metropolitane, ma anche stazioni ferroviarie che collegano centro minori. Come dobbiamo progettare questi servizi? Come affrontare, poi, il tema della temporaneità nei luoghi della ricostruzione, un tema spinoso che da cinquant’anni a questa parte non siamo ancora riusciti a risolvere? O ancora, le zone boschive. Siamo stati nelle Foreste Casentinesi, tra Cesena ed Arezzo, un posto straordinario in cui vive una comunità di frati Camaldolesi che vanta mille anni di storia e, soprattutto, mille anni di rapporto con il bosco circostante. Vogliamo costruire un edificio innovativo nel bosco? Bene, cerchiamo di capire prima quali sono le priorità da soddisfare. In quest’ottica si inserisce anche il dialogo con le Università, fondamentali presidi del territorio, a cui abbiamo chiesto di riversare e di condividere con noi l’inestimabile bagaglio di conoscenze frutto dei loro studi e delle loro indagini. I cinque progetti hanno come obiettivo comune il rilancio del territorio attraverso l’architettura, proprio perché siamo convinti che – anche senza intavolare necessariamente discorsi sui massimi sistemi, sulla speculazione edilizia, sugli ecomostri, ecc. – in questo momento nel nostro Paese si stia facendo poca, pochissima architettura di qualità. Per questo motivo la nostra professione dev’essere rilanciata in primo luogo a livello culturale. Va bene la gastronomia o il Santo Patrono, per citare solo due aspetti certamente importantissimi per la nostra cultura e tradizione, abbiamo però bisogno anche di architettura contemporanea, di luoghi nuovi, di nuove scuole e nuovi centri di servizi pubblici per la collettività. Abbiamo un Paese da riprogettare sul fronte del contemporaneo e tante esigenze a cui rispondere. In questa direzione si inserisce l’accordo che abbiamo siglato con l’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani proprio per fare in modo che i sindaci vengano aiutati nelle scelte e nella programmazione, evitando che non ricada solo su di loro la responsabilità di scelte e decisioni difficili. L’unico modo per far sì che le zone dell’entroterra vivano il rilancio che meritano è operare attraverso interventi capaci di cambiare in meglio la vita delle persone, con opere che abbiano una rilevanza nel vissuto quotidiano. Si tratta dunque di cinque progetti sperimentali e coraggiosi, proposti da persone che hanno accettato di mettersi in gioco. Il documentario, che abbiamo realizzato in collaborazione con Rai Cinema, proiettato nel Padiglione, accompagna gli spettatori attraverso alcuni dei paesaggi che sono al centro dei progetti selezionati. Per realizzarlo ci siamo fatti accompagnare da esperti di diversi settori, come Federico Parolotto, che ha condiviso con noi un pezzo di viaggio in treno attraverso la Basilicata e che ci ha raccontato i problemi di quel territorio dal punto di vista della mobilità. Ma abbiamo parlato anche con le persone che vivono in queste aree, ad esempio con un pastore della transumanza, una pratica che ha svolto un ruolo fondamentale per le comunità e per la trasmissione delle culture popolari. Abbiamo incontrato persone al bar e per strada anche per superare l’idea di un’architettura che vive esclusivamente dentro ad una specie di circolo di ribelli slegati dal resto del mondo. L’architettura è una cosa di tutti giorni. L’idea di un circuito chiuso e ristretto ha provocato da un lato il fenomeno ormai fortunatamente quasi concluso delle cosiddette “archistar”, dall’altro ha allontanato le persone dall’architettura vera, quella pubblica, quotidiana, legata alle necessità primarie delle persone. Bisogna invece tornare ad una sana, ordinaria normalità, ora purtroppo ridotta a eccezionalità per questo processo progressivo di astrazione che il nostro mestiere ha vissuto in questi decenni verso le esigenze vive e mutevoli dei cittadini, di chi vive quotidianamente i territori in trasformazione.

Ci sono elementi che la fanno essere ottimista per il futuro di questa professione? Crede che dialogo e ascolto facciano parte del bagaglio culturale della nuova generazione di architetti?
I più giovani hanno già idee molto diverse rispetto a chi ha intrapreso la professione nei primi anni 2000, anche perchè la crisi che ha interessato il nostro settore li ha obbligati ad avere uno sguardo più laterale e smaliziato rispetto a questa idea mitica e del tutto menzognera dell’architetto ‘star’. Le tematiche ambientali e sociali sono assolutamente presenti nella loro scala di priorità; su questo non ho il minimo dubbio, avendolo riscontrato anche attraverso delle indagini condotte nelle scuole superiori. Nella lista delle dieci cose più importanti per loro ci sono l’ambiente, il riciclo dei materiali, la solidarietà, il network. Non dimentichiamo che questi ragazzi devono vivere un confronto costante con i coetanei stranieri: all’estero le cose si sviluppano in maniera più semplice e veloce. Quello che non si capisce abbastanza in Italia è che l’immobilismo non si traduce per forza in neutralità, nel non fare male a nessuno, anzi: non aver sviluppato una politica dei concorsi e non aver investito nell’architettura ci ha impedito di disegnare uno scenario futuro, negando ogni opportunità a due o tre generazioni di giovani architetti. Si tratta di un ‘fermo biologico’ che su scala sociale non serve a far crescere nessuno e che anzi blocca tutta la categoria. La sezione Il futuro è una conseguenza del presente è nata proprio per dire alla politica che la neutralità non è un equilibrio stabile, ma un fatto negativo e che se non si investe nel presente saremo condannati a subire il futuro. Si rende necessario qui un dibattito vero, forte, una riflessione profonda. C’è un problema di mobilità nel Paese in vista di un cambiamento straordinario nel campo digitale e dell’automazione. Ma noi ci stiamo pensando oppure no? Qualcuno sta riflettendo sull’impatto del cambiamento climatico su un Paese che ha delle fragilità enormi, a partire dal fronte sismico e da quello idrogeologico? Questi elementi messi insieme diventano dei moltiplicatori aggravanti e rendono ancora più urgente e necessaria la messa in sicurezza del Paese. Abbiamo anche un problema demografico. Il calo di popolazione nelle aree interne è stato compensato da 800 mila migranti ed entro il 2034, secondo i dati ISTAT, una persona su quattro in Italia avrà più di 65 anni. Qualche politico che si occupa di welfare li ha guardati questi dati? Le aree dell’entroterra rappresentano il nostro polmone verde, l’unica risorsa di ossigeno del Paese. Qualcuno se ne sta interessando? Qualcuno sta realizzando che questa dorsale che ci attraversa da nord a sud, questo spazio fatto di apparenti vuoti, assume un valore fondamentale per il nostro futuro? È questa la storia che il Padiglione Italia, pur nella sua semplicità narrativa, cercherà di raccontare.

 

Articolo completo pubblicato sul numero di agosto di 

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