L’architettura è ascolto

Pubblicato
23 May 2018

Lettura
7 min


Di Laura Traldi

Arcipelago Italia, il padiglione italiano alla Biennale di Venezia curato da Mario Cucinella, ha un grande messaggio, che trascende l’architettura. Fare insieme è la chiave per fare meglio. Che è già di per sé bellissimo e molto contemporaneo (oltre che in linea con la tematica Freespace della 16sima Biennale). Ma la cosa davvero interessante di Arcipelago Italia è che racconta una metodologia per trasformare la teoria in pratica. Come spiega Cucinella in questa intervista, «per lavorare in modo collettivo è necessario (ri)imparare ad ascoltare il diverso da sé, non per creare consenso ma per cogliere il bisogno».

L’architettura come atto politico

Era lecito aspettarsi qualcosa del genere da Mario Cucinella, che è da sempre un grande promotore del ruolo sociale e impegnato dell’architettura. Da giovanissimo, ha lavorato a fianco di Renzo Piano sulle periferie da giovanissimo. Ha definito le linee guida sostenibili per Expo2015 (la prima esposizione universale ad averle). È il fondatore di Building Green Futures, un’ong che promuove lo sviluppo sostenibile attraverso l’architettura e la rigenerazione urbana. E ha dato vita alla SOS – School of Sustainability, un’accademia per laureati focalizzata alla diffusione della cultura della sostenibilità.

L’architettura come azione sociale concreta

Ma era lecito anche aspettarsi che al pensiero fosse associata l’azione pratica. Infatti Mario Cucinella è anche uno che si rimbocca le maniche, un teorico dell’”empatia creativa”. Che lo porta ad agire, per scelta, soprattutto dove l’architettura può avere un impatto vero. Come a Gaza, dove ha costruito un centro per l’infanzia . O a Guastalla dove ha realizzato un asilo eco-sostenibile a bassissimo costo dopo il sisma. E quando ha consegnato 5 progetti per edifici di utilità pubblica per le zone terremotate tra Bologna e Ferrara, lo ha fatto lavorando con cinque giovani studi di architettura locali.

Un’opera collettiva nata dall’ascolto

Quindi c’era da aspettarsi che il padiglione Italia della Biennale di Architettura 2018 fosse un’opera collettiva. Arcipelago Italia è organizzato in tre parti. La prima sono otto Itinerari: una settantina tra progetti di architettura contemporanea tra borghi, cammini, paesaggi e parchi per spiegare la qualità diffusa dei territori italiani. La seconda delinea un Futuro possibile a partire dai dati demografici e sociologici identificati dal Cresme. Come spopolamento, cambiamento climatico e invecchiamento della popolazione. Fenomeni a cui «sarà possibile porre un freno solo progettando con questo scopo», dice Cucinella. La terza parte sono invece cinque Progetti di Ricerca sviluppati – con un approccio multidisciplinare e partecipato – da 6 studi insieme a università e professionisti locali. Lo scopo, in questo caso, è rimettere al centro l’architettura come risposta al rilancio dei territori.

Mario Cucinella, raccontare l’Italia attraverso le terre di mezzo. Perché? «Perché l’Italia è fatta di queste terre di mezzo, che tanti sguardi osservano distrattamente dal finestrino di un Frecciarossa prima di arrivare nelle grandi città. Che non sono poi così grandi. Siamo ossessionati dalle megalopoli e parliamo sempre di più di città metropolitane. Però in Italia non le abbiamo. Il nostro è un paese fatto di cittadine, di territori produttivi, di paesaggi».

Dobbiamo considerare Arcipelago Italia un manifesto contro le città? «Piuttosto va considerato come una riflessione. Sul fatto che l’Italia esiste grazie a un modello urbano diverso da quello della megalopoli. Il “modello italiano” è fatto da una rete di relazioni tra piccole e medie città e territori, che sono il risultato di interazioni culturali ed economiche. Guardiamo sempre fuori dal nostro paese per capire dove andare invece forse abbiamo anche noi qualcosa da dire al mondo. Perché ormai lo hanno capito tutti che le città non sono quella meraviglia che tutti credevano».

E l’idea che la densità produca cultura, creatività, sapere, lavoro? «Non è sbagliata. Però è anche vero che superata una certa soglia i mega conglomerati non sono gestibili e danno vita a ineguaglianze terribili. Per questo, se parliamo di qualità della vita oltre che di sola economia, credo che la prossimità sia preferibile alla densità. In Italia, pur non avendo città veramente grandi, i centri non distano più di 20 minuti l’uno dall’altro. E non dimentichiamo che le grandi invenzioni dell’Occidente sono nate anche grazie alla competizione tra le città-stato».

Immagino che Arcipelago Italia non sia una proposta di un ritorno al tardo-medioevo… «Arcipelago Italia è uno sguardo collettivo su un mondo in cui quello che conta non è la densità ma il rapporto tra le parti. Non è solo una questione di scala. Non parliamo di città piccole invece che di città grandi. Ma, per esempio, anche di foreste».

Cosa c’entra l’architettura con le foreste? «C’entra perché le aree interne del paese sono il polmone del paese: restituiscono ossigeno e immagazzinano CO2. La natura dà benessere. Ma viene abbandonata per scelte politiche sbagliate. Penso agli investimenti infrastrutturali che privilegiano l’alta velocità sul trasporto locale: di fatto tagliando fuori i piccoli centri e impedendo alla prossimità di funzionare al meglio. O penso alla mancanza di una logica di sfruttamento delle risorse boschive. Abbiamo sempre più foreste ma importiamo la maggior parte del legno. È un’assurdità. Queste sono tematiche in cui l’architettura dovrebbe intervenire. Perché se è in grado di interpretare le mancanze reali e croniche delle “terre di mezzo”, può essere il primo passo per un’opera di rilancio reale».

Di che tipo di mancanze reali e croniche si occuperanno i cinque Progetti di Ricerca? «Del ritardo nella ricostruzione delle zone terremotate, per esempio. Che provoca l’abbandono. Della mancanza di una tutela del patrimonio artistico, di una politica forestale, del sistema ospedaliero non incentrato sull’individuo… Lavorare su questi temi ha insegnato molto a tutti perché ci siamo mossi in modo partecipato. Incontrandoci per discutere le tematiche, portate sul tavolo dopo un’operazione davvero imponente di ascolto sul territorio. Il dialogo è avvenuto tra persone eterogenee, consulenti specializzati sui beni culturali, sul cambiamento climatico, antropologi, sociologi…»

Quando parla di operazione di ascolto sul territorio, cosa intende? «Abbiamo lavorato con Marianella Sclavi, pioniera delle tecniche dell’Ascolto Attivo. È stata lei a organizzare dei laboratori partecipativi in Sicilia, Sardegna, a Camerino, Matera, sulle montagne… E quello che è emerso è che la gente ha un desiderio altissimo di esserci. Ascoltare davvero, non per creare consenso ma per comprendere intimamente le problematiche. Essere capiti dà un’enorme voglia di fare alle persone. Regala un entusiasmo di cui abbiamo fatto tesoro nei progetti. E che ci ha fatto capire che le persone si sentono perse perché non esistono interlocutori credibili e affidabili per le loro aspettative».

Ascoltare la gente è il ruolo dell’architettura? «Quello che vorrei emergesse da Arcipelago Italia è che non serve aver fatto una torre a Hong Kong per essere un vero architetto. Quello che da un senso all’architettura, infatti, non è la scala ma capire davvero cosa bisogna fare e come farlo. Ecco perché l’architettura veramente contemporanea nasce dall’ascolto, dal dialogo, dalle collaborazioni attive. E tanti professionisti italiani lavorano secondo questo approccio: in sordina, senza fanfare, ma con costanza. Non è quindi una novità ma un ritorno e un allontanamento dalla lunga parentesi di stravaganze, mondi da sogno che esistono solo su carta e circoli di architetti che si premiano tra loro. È questa l’architettura di cui ha bisogno la gente ma (ho notato) anche quella su cui ai giovani interessa lavorare».

È un’architettura che si alimenta di multi-disciplinarità? «Assolutamente. Perché fare l’architetto è un mestiere complicato che non si può fare al meglio in solitudine. L’approccio collettivo dimostra che pur lasciando identità alla professione il dialogo con il sapere di altri settori e con la gente è fondamentale per arrivare a una soluzione. Perché la complessità va capita e stratificata prima di essere risolta. Quando un progetto risponde solo alla logica del profitto è come una lista delle spesa. Forse hai comprato tutto, ma da lì a realizzare il piatto perfetto ce n’è di strada da fare. I giovani lo hanno capito. E forse anche per necessità si organizzano in associazioni, collettivi, piattaforme. Siamo davanti a qualcosa di bello e nascente. A cui volevo che la Biennale desse lo spazio che merita».

Articolo pubblicato su

Notizie correlate

Tutte le nostre novità

Copyright 2024 MCA.