L’architettura è dare forma progettuale all’incertezza

Pubblicato
05 Oct 2018

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di Alessia Pincini

Parla di politica, empatia, narrativa Mario, missione architetto, e curatore del Padiglione Italia alla Biennale di Architettura di Venezia. Nella mente, la lezione dei Maestri, due su tutti. E nel cuore, la voglia di costruire. Il futuro.

Un’architettura muscolare, schietta, coerente. Una poetica rigorosa e raffinata, che concilia soluzioni tecnologiche, materiali innovativi e un’estetica mai gratuita. Dalla scala dell’edificio al masterplan, i progetti di Mario Cucinella, classe 1960, sono macchine complesse, dialogiche, pensate per esprimere l’umanità dei luoghi, il calore della prossimità, il potere dei sensi.

Il suo studio è un laboratorio di idee, che ospita workshop di ricerca tematici – l’ultimo in ordine di tempo, Workshop Ricostruzione Emilia, terminerà a fine ottobre con l’apertura del quinto progetto realizzato, il Centro Socio Sanitario di San Felice sul Panaro – e un’accademia di specializzazione post-laurea sulla sostenibilità: la SOS, School of Sustainability. Quest’anno l’incarico di curatore del Padiglione Italia alla Biennale, che Cucinella ha conciliato con l’impegno in mostre e installazioni – come Pollution 2018-RefleAction. in cui lo scorso settembre a Bologna sono state rappresentate attraverso l’arte le sfide ambientali del futuro – e un’intensa pratica: 25 le commesse in progress, tra cui il nuovo polo chirurgico San Raffaele a Milano , la Nuova Università di Aosta, il rettorato dell’Università Roma Tre, edifici a uso misto a Tirana e Vienna e interventi pubblici in Ghana e Algeria. Nella sua disciplina, l’insegnamento dei Maestri, assorbito e restituito con l’attività di lecturer. In primis, quello di Giancarlo De Carlo, di cui confessa di essere stato un pessimo allievo.

Mi infastidiva la sua severità mentre io volevo fare di testa mia. Dopo la laurea, mi chiese di approfondire la tesi ma ero appena tornato da un lungo viaggio on the road negli Usa e avevo la smania di ripartire. Posso dire di aver assorbito la sua lezione negli anni. Il suo lavoro intellettuale era fuori dal tempo: parlava di progettazione partecipata, di rapporto con il territorio, di architettura responsabile con visione poetica e grande fiducia nei giovani, in un momento in cui la discussione accademica era molto formale e si costruiva poco. Oggi il tempo gli dà ragione e quei temi potrebbero essere gli elementi fondativi di un nuovo modo di concepire il mestiere.

Ma alla fine, in America, non è scappato.
Avevo trascorso le ultime tre estati prima della laurea in studio da Renzo Piano. Così mi laureai il 17 dicembre del 1986 e l’8 gennaio facevo già parte del team. Sono rimasto cinque anni, prima a Genova, poi a Parigi. Lavorare con un Maestro è utile finché si ha la consapevolezza di imparare, ma poi arriva il momento in cui ci si sente in trappola. Volevo capire cosa sarei stato capace di fare da solo e così ho lasciato il workshop. Ho aperto uno studio in Francia e poi, all’alba dei Duemila, sono tornato definitivamente in Italia, a Bologna. E stata durissima all’inizio. Per fortuna poi le cose sono andate meglio…

Ci sono state tante notti insonni?
Certo… e quante arrabbiature! Per fortuna il periodo delle notti bianche è terminato da un po’… Ho imparato a non prendermela troppo, perché mi sono reso conto che la conflittualità è una delle regole del gioco in questo mestiere. Bisogna avere la capacità di reagire sempre progettualmente.

Anche nel rapporto con la committenza?
II rapporto con i clienti è fatto di grandi generosità. Questo è un mestiere meraviglioso, che si fa per passione, ma che richiede grande sforzo intellettuale e anche un enorme impegno nelle relazioni. La progettazione è un processo complesso e ansiogeno, perché include un alto grado di incertezza; mentre il cliente ragiona sui profitti e l’ingegnere sui numeri, l’architetto ha a che fare con l’ansia […].

II dibattito sulla centralità dell’architettura e del ruolo del progettista è attuale e pone sul tavolo l’esigenza di una regolamentazione. Si parla da tempo di una Legge italiana per l’Architettura.
Strutturare una legge per cui l’architettura venga riconosciuta come espressione della cultura del paese significa dare alla progettazione il senso istituzionale profondo che oggi non ha. Ma non basta. Per tutelare e valorizzare l’architettura è necessario che venga attuata anche una riforma della professione, con una selezione durissima per esercitare. La classe degli architetti è indifendibile: cultura di basso livello e accesso facile a un mestiere di così grande responsabilità sociale hanno creato una categoria che gode di una considerazione…

…molto negativa. La cronaca recente ha riacceso il dibattito sulle responsabilità del progettista.
Deve cambiare la percezione dell’architetto come star frivola o coinvolta in processi. Quella del progettista è una professione seria, basata su dei principi solidi, e una buona formazione è necessaria per difenderne la qualità […]. II valore di questo mestiere è un aspetto da rimettere al centro. Con concorsi pubblici seri, per esempio. Senza inventare nulla, basta prendere come esempio l’esperienza francese. Il dubbio che sorge, nonostante il mio ottimismo, è che ci sia una volontà precisa di non organizzare con chiarezza un sistema meritevole… Se il mercato pubblico inizierà a giocare con nuove regole, quello privato seguirà l’esempio.

Il suo studio ha realizzato progetti di pubblica utilità nei territori dell’Emilia colpiti dal sisma nel 2012. E, per la Biennale, siete stati a Camerino, gravemente danneggiata dal terremoto due anni fa. Una nuova Legge dovrebbe contenere anche prescrizioni per guidare la ricostruzione del territorio?
Sembra che in Italia non ci sia bisogno di interventi di manutenzione. Ciò che mi sorprende di più è che non solo non impariamo dalle cose che succedono – ogni volta è una “fatalità” – ma che, pur possedendo le conoscenze tecniche, non si procede con la messa in sicurezza del paese. E’ difficile spiegare lo stallo a chi ha perso tutto. La burocrazia sembra il più grande alibi di questo paese, il quale si dilunga nelle decisioni usando le regole che lui stesso ha costruito per non fare le cose. La politica dovrebbe avere più coraggio ma fa fatica a dialogare, mentre bisognerebbe dare alle persone una narrativa di futuro contro la disperazione […].

E lei non vorrebbe fare politica?
In parte la faccio attraverso il mio mestiere, poiché siamo anche un’impresa sociale e culturale. Potrebbe essere ragionevole pensare, alla fine della carriera, di dedicare una parte della vita a fare politica per restituire l’esperienza e le conoscenze acquisite sotto forma di beneficio pubblico…. Ma secondo me la gente si chiederebbe subito per quale interesse personale lo faccio!
Se si mettono insieme le politiche sulla casa pubblica, sul patrimonio edilizio, sull’età della popolazione si può pensare al futuro. Sono temi che riguardano anche l’architettura, come pure l’adeguamento sismico e impiantistico degli ospedali, che è richiesto in tempi brevi. Una questione per nulla banale. Serve una riflessione sistematica. Quindi anche il tema delle aree interne italiane, che abbiamo portato alla Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia nel Padiglione Italia – con un viaggio lungo i territori lontani dall’immaginario delle metropoli dell’Arcipelago Italia – era l’occasione per parlare delle problematiche e del destino di una parte di paese che costituisce un grande polmone verde e detiene un patrimonio culturale inestimabile per tutta la popolazione. Il messaggio era: in Italia la più grande città è il Paese stesso, che è una rete di centri urbani e paesaggi meravigliosi. E poi ci sono i temi legati all’ambiente, i primi da trattare secondo l’agenda 2030 a livello europeo. A iniziare dal climate change, che impone alle città di munirsi di un piano di adattamento al clima per far fronte alle conseguenze negative sulla salute e sulla qualità della vita delle persone […]. Nella mia previsione ci vorranno 20 anni per realizzare un cambiamento di rotta, quindi si può dire che l’evoluzione è nelle mani dell’attuale generazione dei quindicenni.

Ha accennato all’efficienza energetica degli edifici. Ha senso ancora parlare della sostenibilità come valore aggiunto, e non integrato, di un progetto?
Spero che la sostenibilità diventi presto come il piano per la sicurezza antincendio, cioè una necessità dell’edificio. Non è un aspetto ingegneristico, quindi demandato ad altri; è connaturata nelle scelte estetiche, tipologiche della progettazione. La cultura dell’immagine è stata un controvalore della sostenibilità, poiché nelle manifestazioni più integraliste – gli edifici di terra o paglia – ne ha fatto quasi una caricatura. Dobbiamo essere consapevoli dei principi di rispetto dell’ambiente e le nostre competenze ci consentono di concepire una forma che già contiene le giuste soluzioni.

Sostenibilità è anche non costruire…
II consumo di suolo è un problema concreto, l’importante è che non sia una scusa per non fare più nulla. La questione non è non costruire ma abbattere le incompiute, veri danni per l’ambiente, e sostituire gli edifici inutili, senza il desiderio di riusare tutto se non ne abbiamo bisogno. Costruire non significa agire contro l’ambiente: sono consapevole del fatto che gli edifici non sono un’azione ecologica ma l’impegno è realizzare progetti il più sostenibili possibile, ricorrendo alla tecnologia e all’uso razionale delle risorse. Il futuro metropolitano dipenderà, oltre che dalla riduzione del traffico, dalla riduzione delle emissioni degli edifici. E la qualità della vita nelle aree urbane influirà anche sullo sviluppo dei territori interni, che ora sono solo rifugio per chi scappa dalle città.

Quindi la tecnologia può essere considerata uno strumento di lavoro?
E un mezzo per costruire l’architettura. L’estetica di un edificio deriva dalle modalità con cui viene realizzato, quindi dalla capacità di manipolare la tecnologia. Poi, personalmente, non sono un amante dei gadget tecnologici. Mi incuriosisce la tecnologia applicata alla motocicletta, che è una delle mie passioni […]. Sì, mi piace collezionare moto […].

Oltre ad andare in moto, cosa fa quando non si dedica all’architettura?
Non rimane molto spazio per il resto. Ho due figli, con cui cerco di trascorrere più tempo possibile, anche facendo una passeggiata in città, e mi piace viaggiare, anche se sono spesso via per lavoro ma è altra cosa, altri ritmi. Poi ho un amore recente per la barca a vela, che trovo molto educativa […].

Due ultime domande veloci: senza pensarci su, sa dirmi esattamente quanti progetti ha elaborato?
Duecentosettantacinque. Alcuni realizzati, alcuni no. Progetti sviluppati compiutamente, non schizzi.

Se potesse tornare indietro nel tempo, sceglierebbe ancora di fare l’architetto?
Faccio questo lavoro per passione e per guadagnarmi da vivere. Se, all’epoca, avessi fatto una to do list, forse ci avrei pensato due volte prima di lanciarmi in questa avventura. Però in certe situazioni è necessario agire con incoscienza. Sono stati anni molto faticosi, altro che dormire la notte! Non sapere è stato un bene. Ma è la parte bella del mestiere e della vita. È un mettersi in gioco ogni volta. Come con un nuovo progetto.

 

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