L’interazione disciplinare. Dall’arte visuale alla società globale

Pubblicato
13 Jun 2019

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Di Luciano Marucci, intervista Mario Cucinella

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Condivide le modalità interdisciplinari che hanno determinato le contaminazioni, gli slittamenti linguistici e le sinergie tra le attività creative eterogenee?

«Direi di sì. Il fatto di sovrapporre culture e conoscenze diverse, è un arricchimento del  nostro tempo. Vista anche la complessità del mondo in cui ci muoviamo, le contami nazioni sono importanti e riguardano sia le scienze sia le arti. Ma soprattutto sono fondamentali per l’architettura, che risponde alle necessità della vita quotidiana e richiede di confrontarsi con realtà differenti e incrociare i saperi».

Pensa che questo orientamento sia incentivato pure dall’urgenza di affrontare la complessità del sistema socioculturale?

«Nelle società ci sono certamente cambiamenti e complessità dovuti anche alla compresenza di realtà socioculturali diverse. Siamo un po’ di fronte a un paradosso: da una parte l’artisticità diventa sempre più globale; dall’altra l’arte stessa tende a praticare la specificità. Le due anime vivono insieme, anche in situazioni conflittuali che possono essere delle opportunità. Mi sembra questo il tema più importante dell’attuale struttura sociale».

Per il progresso delle arti e della società è indispensabile far interagire i saperi degli specialisti?

«Sì, considerando che gli specialisti hanno sempre delle visioni molto particolari. Quindi ci vuole qualcuno, come un artista o un architetto, capace di costruire una visuale più ampia. La cultura di questo secolo ha deciso di imboccare una strada specialistica perdendo la visione dell’insieme. In una società colta abbiamo bisogno di chi interpreti tutti i fattori non collegati attraverso una operazione artistica e sappia raccontare in sintesi il nostro tempo. Oggi c’è qualcosa che non funziona nella visione filosofica della vita. Da un lato le persone stanno tentando di capire quale sarà il futuro seguendo un approccio olistico, nel contempo si progredisce in segmenti separati e molto specifici. In questo momento abbiamo tanta conoscenza e poca sintesi».

La specificità è soprattutto in funzione della multidisciplinarità?

«Il fenomeno della specializzazione ha frammentato i saperi, per cui ognuno fa una piccola cosa molto in profondità. Il mondo dell’arte dovrebbe avere la funzione di cogliere gli spunti delle ricerche specialistiche e di riuscire a far vedere qualcosa che riassuma tutto questo sapere. Purtroppo le visioni specialistiche sono fatte di segmenti, non di storie, e questo è un problema».

La monodisciplina e l’espressione autoreferenziale hanno perso valore propositivo?

«Le monoculture non sono parte dell’ecosistema che è complesso, costituito di tanti elementi. Il mondo della cultura, anche quello della ricerca scientifica e di altri settori separati come l’architettura e il design devono essere espressione della società; non possono rinchiudersi in un recinto autoreferenziale. Questo purtroppo è l’effetto collaterale della specializzazione. Però mi sembra di vedere sempre più che c’è l’esigenza di capire qual è il nostro tempo, qual è il futuro verso il quale stiamo andando, ricco di informazioni e di crescita».

Si va formando anche un’identità personale plurima?

«“Plurima” è una parola contraddittoria. Chissà cosa succederà? Francamente non lo so. Come dicevo prima, mi sembra chiaro che ci sia bisogno di ritrovare le proprie radici, le proprie identità da condividere con un mondo più vasto. Anche gli spazi chiusi sono luoghi di condivisione; si può essere diversi ma insieme. La simbiosi tra architettura, design e arte visuale è da tempo largamente riconosciuta».

Oggi che è mutata la realtà socioculturale cos’altro dovrebbe entrare nella progettazione di un architetto d’avanguardia?

«I temi ambientali saranno sempre più connessi, come pure quelli che hanno conseguenze sulla vita sociale. A livello di estetica, di design mi sembra di scorgere anche dai più giovani la consapevolezza che non si può andare avanti così. Possiamo continuare a fare quello che vogliamo, ma l’ambiente ci sta presentando un conto molto salato, perché certi fenomeni generano un alto inquinamento. Nelle città siamo assediati dal traffico e da tanti altri problemi ecologici, mentre si potrebbe vivere meglio. Se vogliamo stare insieme nella diversità, dobbiamo farlo in un pianeta sano. Abbiamo molte ambizioni; siamo troppo veloci, ma il tempo è più veloce delle nostre ambizioni. L’obiettivo dei prossimi decenni sarà quello di rallentare la corsa e di avanzare con più equilibrio. Insieme sì, ma anche con la natura, cosa che adesso non avviene».

La produzione del vostro team sottende o manifesta una forma di attivismo?

«Assolutamente sì. Ce lo stanno dicendo i ragazzi del Global Strike for Future, delle scolaresche che vanno in piazza a fare manifestazioni pacifiche. Questo è l’attivismo tra i più interessanti degli ultimi decenni. Anche l’impegno dell’architettura è una forma di attivismo. Il nostro è un lavoro di relazione culturale che incide sulla vita delle persone. Credo che gli architetti abbiano una importante responsabilità sociale nel portare avanti queste battaglie».

I progetti che vanno in tale direzione incontrano consensi? Possono essere attuati nel nostro Paese?

«Nel nostro Paese, al di là di tanti paradossi, certi progetti stanno diventando sempre più di interesse, anche per il mercato, che forse per molti anni non ha voluto guardarli. Adesso essi sono bene accolti e ci chiedono di farli in una determinata direzione. Se poi ci riusciamo al 100% o al 50% è un altro discorso. Insomma, c’è una domanda che quindici-venti anni fa non c’era. Si richiede a un architetto di tenere presenti i temi energetici, ambientali. Anche il committente ha una maggiore consapevolezza e può offrire il suo contributo. C’è una coscienza ecologica pure nel mercato che ecologico non è».

La limitazione dipende dalla mancanza di risorse finanziarie di volontà politica o di maturazione culturale?

«Le risorse finanziarie ci sono per fare cose belle e cose brutte; fondamentalmente, però, la politica è ancora piuttosto assente sui temi ambientali; non fa il lavoro che le compete. L’edilizia pubblica dovrebbe essere l’esempio da seguire, invece è quasi scomparsa. Non c’è un governo che si presenta con degli esempi forti e il problema ancora più grave è che, a fronte del cambiamento climatico, non c’è un cambiamento culturale. Stiamo entrando in un’era nuova con una cultura vecchia; ecco perché dobbiamo contare sui giovani, sui loro stimoli. L’era ecologica è prossima e occorre attrezzarci».

Se ci fossero le committenze, sarebbe più opportuno dedicarsi alla riqualificazione delle aree degradate o alle costruzioni elitarie?

«Le aree degradate sono di grandissimo interesse. La città non è un luogo di felicità per tutti. Si deve lavorare anche nelle aree meno fortunate, povere dal punto di vista edilizio. È uno dei lavori più difficili, il più grande da fare. Questo patrimonio è in cerca di valorizzazione energetica, ambientale, ma anche sociale. Gli edifici nuovi saranno infinitamente meno di quelli da mettere a posto. Gli architetti devono confrontarsi su due aspetti: migliorare la vita dei quartieri degradati e non trascurare la modernità».

L’ “architettura dell’ascolto”, praticata dal suo Studio, riesce a calarsi nella realtà quotidiana senza perdere identità immaginativa e dinamismo progettuale?

«Il tema dell’ “ascolto” è fonda mentale ed è stato dimenticato per troppo tempo. Ascoltare la gente vuol dire anche sviluppare contenuti creativi. L’architetto lavora per gli altri, perciò le politiche di ascolto sono essenziali. Ciò non vuol dire che il suo ruolo creativo sia limitato, al contrario egli ha uno strumento ancora più incisivo nell’interpretazione di aspirazioni che gli permette di fare meglio il proprio lavoro».

L’architetto è anche un educatore, un creativo che aiuta gli altri a vivere la contemporaneità?

«Certamente, perché lavora per un tempo che ancora non c’è. Gli edifici si progettano e si realizzano negli anni. L’architetto è un visionario che può aiutare a interpretare la società del tempo che verrà. È un educatore perché costruire edifici è una sorta di educazione civile. Infatti essi raccontano la società contemporanea. Se si guarda alla storia delle nostre città, che sono le più belle del mondo, scopriamo che in passato si teneva alla bellezza, alle cose fatte bene e che le società si rappresentavano attraverso la costruzione dello spazio. Abbiamo fatto le piazze per ché volevamo incontrarci, parlare di politica, confrontarci con le discussioni, allestire i mercati. Lo spazio di per sé è stato una delle prime forme di innovazione della società, ma anche un grande strumento culturale».

Con l’uso sperimentale delle tecnologie digitali e degli algoritmi si rischia di allontanare l’architettura dalla realtà fisica del presente?

«Il mondo digitale va osservato da due punti di vista: uno come opportunità per la comprensione della complessità, che ci aiuta ad affrontare più rapidamente il futuro; l’altro ci dà strumenti informativi (non progetti) che ampliano le nostre capacità. Ma alla fine è sempre il pensiero di un uomo, di un gruppo che fa il futuro. Oggi si crede che il digitale, come la tecnologia, sia la panacea dell’uomo. In realtà è fatto solo di strumenti.  Ci vuole il pensiero, l’interpretazione del tempo; solo dopo servono gli strumenti. Non bisogna confondere. Sembra che il futuro possa essere fatto dall’intelligenza artificiale, dai computer, da altre macchine e che noi saremo lì a guardare. Non credo proprio che sarà così».

Anche il moltiplicarsi dei team e dei collettivi impegnati nelle attività inventive e produttive indicano che per i professioni sti è più difficile operare isolatamente?  Il team che porta il suo nome è stato costituito per meglio aderire alla realtà in trasformazione e per essere competitivi?

«Quello dell’architettura è un settore difficile. Confesso che ha bisogno di nuovi strumenti e si fa veramente poco se si affronta la complessità da soli. In questo momento gli architetti debbono confrontarsi con strumentazioni che richiedono competenze e collegialità. Allora occorre che sappiano lavorare su questa complessità con un team di persone che condividano degli obiettivi, che aiutino a tracciare la strada fatta di tanti percorsi. Da una strada dritta non si arriva in fondo; occorrono percorsi alternativi con partecipazione, dibattiti intensi, genialità, tecnologia… Per forza il lavoro deve essere di gruppo. Oggi la conoscenza degli strumenti digitali richiede una più alta e qualificata capacità professionale».

Cosa l’ha spinta a dedicarsi con un certo impegno alla produzione di oggetti di design, caratterizzati dalla “funzionalità estetica”, in mostra presso lo Showroom del Brera Design District di Milano?

«Ho voluto provare a estrapolare l’essenza ispiratrice delle mie architetture, trasformandole in oggetti quotidiani come vasi, brocche, centrotavola. Gli edifici non sono oggetti, ma luoghi da abitare, dove vivere insieme; sono costruzioni complesse e molto spesso irreversibili. Creano legami, generano passioni e bellezza. Questi prima di diventare delle architetture, erano oggetti semplici, luoghi ancora non costruiti, che sarebbero poi cresciuti per trasformarsi in edifici. Building Objects è questa essenza semplice e innocua, solo puro divertimento».

Un passo indietro. Nella sua prima formazione che ruolo ha avuto la scuola del Bauhaus?

«L’esperienza del Bauhaus è stata breve ma eccezionale. Le arti si sono messe insieme, si sono fuse per produrre qualcosa di utile e hanno dato vita a un momento della storia dell’umanità dove le comunità artistiche si riunivano per parlare di natura, musica, pittura, architettura… I migliori artisti, architetti e designer insieme avevano capito che qualcosa doveva cambiare e l’hanno fatto attraverso i loro progetti e le loro opere; hanno bene interpretato il tempo e hanno fatto educazione attraverso un movimento culturale forte, didattico e concreto. All’inizio del secolo alcuni fenomeni hanno anticipato di cento anni la società. Secondo me l’ambito creativo può prevedere di molto il tempo che verrà. Gli artisti hanno dei sensori importanti. L’arte oggi è un po’ laterale alla società, invece il Bauhaus era al servizio delle persone. Lo guardiamo ancora con un certo interesse e forse anche con una piccola nostalgia. Vedo che quel tipo di formazione non si è ripetuta. Sarebbe un ritorno meraviglioso!».

Quali altri insegnamenti sono stati metabolizzati nel suo percorso evolutivo?

«La cosa che mi ha più interessato forse è la multidisciplinarità che non perde di vista la concretezza, ma anche l’eredità del Bauhaus, dal momento che la cultura e l’architettura si diramano in tanti filoni, e abbiamo bisogno di tornare con i piedi per terra. Il mondo digitale, ad esempio, ha creato delle illusioni, ma non molto futuro, e su questo punto bisognerà lavorare, perché l’illusione porta alla frustrazione».

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