Mille volti di un mestiere difficile, intervista a Mario Cucinella

Pubblicato
01 Dec 2017

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Il futuro e la città contemporanea, i progetti recenti, ma anche un accenno alla Biennale di Architettura di Venezia e perfino un’anticipazione inedita riguardo a un personalissimo progetto, la conversazione con Mario Cucinella, nel suo studio MC Architects a Bologna dove lo abbiamo incontrato, fluisce attraverso pensieri ed esperienze che toccano le corde di una visione e una pratica umanistiche dell’architettura.

L’esordio professionale risale a circa trenta anni fa, a Genova nello studio di Renzo Piano, al quale “ho un po’ rubato il mestiere”, dichiara Cucinella. Riconosciuto in ambito internazionale per il suo progettare architetture legato in modo indissolubile al concetto di sostenibilità, con particolare attenzione al contesto ambientale e all’uso razionale dell’energia, l’architetto si occupa anche di progetti educativi, di formazione e impatto sociale. Di recente è stato nominato curatore del Padiglione Italia alla 16. Mostra internazionale di Architettura della Biennale di Venezia, cominciamo da qui.

Si è conclusa da poco la call ‘Arcipelago Italia’, per indagare il ruolo dell’architettura contemporanea nelle aree interne del Paese, spesso percepite come luoghi non interessanti e marginali. Cosa può dirci dei progetti?
Sono arrivate oltre 500 candidature da tutta Italia, delle quali circa un terzo intercetta il tema della call, fornendone anche un’interpretazione originale e non scontata. L’indagine, in generale, ha permesso di conoscere più da vicino l’operato dei progettisti presenti sul territorio e molti altri ‘casi virtuosi’. Quello che emerge, e vogliamo raccontare, è un Paese che, nonostante le mille difficoltà, generali ed economiche, ha dentro di sé molte risorse e una vivacità è sorprendente.

 

Abitare, Connettere, Condividere e Progredire sono le categorie che classificano i progetti. Incuriosisce l’interpretazione di Progredire…
È legata, in particolare, ai luoghi di trasformazione culturale. L’aspetto più interessante è che riguarda iniziative soprattutto locali, spesso di giovani che decidono di iniziare un percorso legato alla cultura perché danno vita a un’associazione, ristrutturano un immobile o impiegano risorse per rilanciare il territorio, grazie alla cultura che fa da motore di sviluppo.

La cultura rimanda a uno dei suoi ultimi progetti, il Centro Arti e Scienze della Fondazione Golinelli, costruito a Bologna nella prima periferia urbana.
Il padiglione nasce da un’esigenza funzionale. La Fondazione, voluta dall’imprenditore e filantropo Marino Golinelli, che propone un nuovo modello educativo e culturale (basato su scienza e sperimentazione) – un po’ sul filo della tradizione italiana dei grandi innovatori pedagogici – aveva necessità di uno spazio da dedicare a esposizioni , convegni e incontri. La sede, l‘Opificio Golinelli realizzato qualche anno fa recuperando un ex complesso industriale, non era più sufficiente per lo sviluppo di tutte le attività formative. La nuova architettura interpretata da un volume traslucido possiede un duplice valore, con due luoghi da abitare: uno, interno, dedicato alle mostre e l’altro, una sovrastruttura metallica con terrazze panoramiche, fuori, per vedere la città.

 

Sono, quindi, le periferie la nuova sfida e il futuro delle città?
Mi piacerebbe cancellare la parola periferia che rende i cittadini un po’ di serie A e un po’ di serie B. La città contemporanea, moderna è fatta di luoghi antichi, moderni, contemporanei, giusti o sbagliati che siano. Se Renzo Piano con il progetto G124 sul recupero delle periferie in Italia (Mario Cucinella ha collaborato come tutor n.d.r.) ha giustamente messo in luce e riacceso il dibattito su un problema che sembrava dimenticato dalla politica, l’impressione che avverto è che se ne parli sempre con una finalità. La realtà, invece, è che la maggior parte delle persone vivono nelle città ‘recenti’ e le loro esigenze cambiano.Sulle ‘città storiche’ abbiamo fatto un lavoro di tutela straordinario, un atto dovuto, spinto dal mondo intellettuale-culturale. Penso agli anni Cinquanta-Ottanta e a figure di riferimento come Antonio Cederna, autore di campagne contro gli scempi e la speculazione edilizia nella ricostruzione postbellica, per difendere i centri storici, i luoghi della memoria e il loro patrimonio di cultura. Adesso quella stagione è consolidata, nessuno si sognerebbe di buttare giù qualcosa, sono passati ormai quaranta anni. Oggi il punto è di avere quella forza strutturale e di vedere nella città moderna, contemporanea, i nostri nuovi luoghi.

Che valore possono avere per le città progetti culturali come il Centro Arti e Scienze per le città?
La città va vista come una serie di opportunità differenti: se il centro storico offre una memoria e una qualità degli spazi di un certo tipo, la città moderna dispone di altre tipologie di spazi. Riguardo all’Opificio e al Centro Golinelli, l’idea di ‘riusare’ un edificio industriale e di costruirne uno nuovo è un’opportunità che può venire solo da un territorio contemporaneo. L’architettura è un grande motore di rilancio delle città, ma questo non lo dico certo io, basta guardarsi intorno. E l’operazione Golinelli ha un senso perché rimette il fulcro della questione sul fatto che le nostre città, contrariamente a quanto si pensa, hanno bisogno di architetture contemporanee, di queste pillole di bellezza anche sulla cultura.

Come i progetti post terremoto…
Sì, le operazioni sulla ricostruzione, in Emilia, sono state l’occasione per progettare luoghi che non c’erano, edifici di cui c’era bisogno. Non ha senso la questione del “com’era e dov’era (ricostruire uguale a prima e nello stesso luogo, n.d.r)”. I territori sono ripartiti grazie a opere di architettura che hanno contribuito al miglioramento di quelle zone. Non abbiamo cementificato la periferia, ma inserito elementi che hanno generato qualità.

Servono nuove narrazioni?
Gli edifici devono dare spazio ad aspetti che prima non c’erano, alle nuove esigenze. Quindi, gli spazi contemporanei per l’arte, l’educazione, lo sport hanno bisogno di nuovi luoghi e questi sono disponibili: meno densi, diradati. Ѐ chiaro che bisogna avviare una politica su questo aspetto, che a me sembrerebbe un rilancio enorme del Paese.

Cosa racconta il progetto della Fondazione Rovati, a Milano?
Il museo ipogeo, fulcro dell’intervento di ristrutturazione e ampliamento dell’ottocentesco Palazzo Bocconi-Rizzoli- Carraro è dedicato al tema difficile dell’archeologia, in particolare alla valorizzazione della collezione di vasi etruschi. Ma la tematica di come rendere attrattivo lo spazio della narrazione, forse potrebbe riaprire il dibattito sui Musei. Qui, il livello interrato diventa una metafora delle tombe degli Etruschi, uniche fonti storiche giunte fino a noi insieme agli oggetti e ai reperti, che accompagnano il passaggio dalla vita terrena a un’altra vita. Quella tensione è un momento artistico bellissimo, e il racconto di questo viaggio è interpretato, attraverso l’arte, per arrivare alle persone. Il tema del museo, inoltre, non si limita solo a quello dell’esposizione, ma anche al rapporto fra forma e materia in maniera più ampia. E poi, come nella più grande tradizione del collezionismo, i piani superiori del palazzo sono dedicati all’arte contemporanea, con una sorta di wunderkammer. Alla fine, questi nuovi mecenati, direi quasi filantropi, che investono risorse proprie per realizzare uno spazio pubblico nel quale comunicare l’arte antica e contemporanea, cercando di stabilire un discorso tra queste due distanze, mi sembra stiano compiendo un’operazione molto importante.

Ci tolga una curiosità. Dopo la lampada Woody per iGuzzini ha più praticato la scala del design?
Abbiamo ricevuto tantissime richieste per disegnare anche gli interni degli edifici che stiamo realizzando e allo stesso tempo per altri lavori di design. Quindi, da un paio di mesi abbiamo aperto una sezione di interior design con due persone che se ne occupano a titolo esclusivo. E poi c’è un mio progetto personale che si chiama ‘Building objects’: una miniserie di oggetti ispirati a quattro architetture che mi piacciono particolarmente.

Può darci qualche anticipazione?
Alcune intuizioni riprendono ad esempio gli elementi scomposti della struttura del progetto One Airport Square di Accra, in Ghana. Altre ispirazioni nascono da un edificio che stiamo realizzando sempre in Ghana, la Kwame Nrumah Presidential Library, ma anche dalla Kuwait School nella Striscia di Gaza in Palestina con il suo grande tetto curvo e ancora dall’intreccio che caratterizza il  progetto della sede del Parlamento a Tirana.

Il suo studio comprende un team di 60 architetti, ingegneri ed esperti di sostenibilità. Come si sviluppa il processo di progettazione?
L’architettura è un mestiere difficile. Non si spiega mai abbastanza la difficoltà di una professione che parte spesso da un pensiero immateriale, quello della creatività, per trasformarsi in materia. Questa traversata si può paragonare a Cristoforo Colombo che valica l’Oceano: non sa cosa c’è al di là, però intanto ci va. Quella è la forza di un architetto. L’architettura, poi, si fa per le persone e con gli altri va condivisa; gli edifici sono progettati per il mondo che abbiamo intorno, che è molto vario e, sia gli spazi pubblici che quelli privati partecipano alla vita quotidiana. A una normalità che un sociologo può aiutare a studiare e capire, ma lo stesso vale per le tematiche legate al clima, serve un climatologo. In generale è un viaggio che facciamo insieme ad altre persone che ci aiutano a interpretare anche un po’ i contesti in cui ci stiamo muovendo.

Una visione…
Degli umanisti del Cinquecento. Non l’avevo capito quando studiavo con Giancarlo De Carlo all’università di Genova, ma solo anni dopo. Alla fine parliamo di gente, di abitare, ci occupiamo in qualche modo anche della costruzione di una memoria. Lo dico sempre, gli edifici non sono luoghi che si spostano ma viaggiano nella memoria delle persone. Il problema è che la traversata, ovvero tradurre in architettura materia, spazio, forma, estetica e funzionamento, è un percorso che richiede molto talento e tenacia: non è tanto avere delle idee quanto portarle a termine e realizzarle. Durante il percorso, però, incroci molte vite e nel fare cogli mille sfide.

Come quelle con i giovani, la formazione e le scuole. Parliamo di S.O.S. la School of Sustainability, da lei fondata nel 2015, ma anche del progetto LAP, Laboratorio di Architettura Partecipata, per un nuovo modello di progettazione degli edifici di edilizia scolastica.
In provincia de L’Aquila, grazie al progetto LAP abbiamo lavorato con i ragazzi dell’associazione, VIVIAMOLAq per ridefinire il nuovo polo scolastico di Pacentro, frutto dello scambio di idee avviato con tutta la comunità. Con S.O.S. ci siamo occupati della ricostruzione post-terremoto di Camerino. Abbiamo svolto un percorso, in collaborazione con Ascolto Attivo – professioniste milanesi che ci supportano nei processi di architettura partecipata – il Comune e i cittadini per definire un progetto di visione della città futura. Pochi giorni fa lo abbiamo presentato in una riunione pubblica. Tutto questo ha molto senso, il nostro ufficio non è uno studio di architettura è piuttosto un’impresa culturale. Siamo nella logica del profitto, come ogni altra attività, ma sentiamo anche una responsabilità sociale. La scuola, le altre attività (come l’organizzazione no profit Building Green Futures n.d.r.) ci consentono di restituire conoscenza, contribuire a un risultato finale che sia a vantaggio di tutti. È un po’ questo il modello di architettura che sto cercando di portare avanti.

Ma qual è la sua idea di futuro?
Ci sono due futuri. Uno, inteso come una conseguenza del presente. Dobbiamo essere consapevoli che le azioni che si fanno oggi avranno una ricaduta nel tempo. Quindi, quando le cose non si fanno, in realtà neghiamo un futuro possibile, non lo stiamo progettando. Due, non c’è niente da fare, il futuro arriva comunque. Si tratta di capire se, su alcune cose, affidarsi all’aspetto dell’imprevedibile ci salva sempre; molto, però, dipende dalle azioni che facciamo noi uomini del nostro tempo. Quando si rinuncia al presente è un po’ come rinunciare al futuro.

 

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