Nuova città, le idee

Pubblicato
23 Apr 2020

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Le riflessioni dell’architetto Cucinella su come Bologna potrebbe cambiare dopo l’emergenza: «L’abitazione è il primo welfare»

Di Francesca Blesio

Architetto Mario Cucinella, dobbiamo ritenerci fortunati o al contrario non lo siamo stati, ad aver affrontato il lockdown in una città come Bologna? «Siamo stati fortunati più che altro perché l’Emilia-Romagna si è mossa bene e Bologna ha sofferto meno di altre città. La struttura della città nel complesso ha tenuto. Ma in questi giorni ci siamo resi conto di come abbiamo comprato case che non abbiamo mai avuto tempo di vivere fino ad ora. E si è aperta una riflessione nuova sul nostro abitare».

Con quali risultati? «Intanto abbiamo avuto la dimostrazione che le case costruite negli ultimi cinquant’anni hanno delle pecche. E emerso poi il tema della povertà edilizia: penso a chi vive in piccole case, abitazioni non adeguate, dove non c’è vino. La casa è una rappresentazione del modo in cui vogliamo stare insieme agli altri. Ma se vogliamo case del genere, aperte sull’esterno, bisogna che l’aria della città sia più pulita, quindi ridurre l’inquinamento».

Per alcuni il lavoro da casa è stato tutto meno che smart. «Molte case non sono fatte per lo smartworking e lo smartworking non è per tutti, anche perché molti lavorano nelle fabbriche o in negozi. Ma c’è chi ha scoperto con questa esperienza che una parte del lavoro la può fare a casa. Fosse anche solo il 10-15% delle persone attive, significherebbe il 10-15% di persone in meno in auto o in autobus. Per alcuni potrebbe essere anche una grande opportunità per gestire meglio la propria vita familiare».

Si ragiona su scaglionamenti per evitare assembramenti, traffico e contagi. «Si potrebbe cominciare a immaginare una settimana non più di cinque giorni più due, ma di sette, diluendo quindi la gente su sette giorni lavorativi: una settimana in cui la mia “domenica” può essere il martedì e il mercoledì, per lei il sabato e la domenica, e per un altro il giovedì e il venerdì. Così ci muoveremmo su giorni sfalsati. Questo avremmo dovuto comunque farlo, a prescindere da quel che è accaduto. Io penso che nessuno voglia tornare a una città ingolfata di traffico, inquinata e a convivere con quello stress inutile di prima. È un momento molto importante per progettare».

Come? «Potremmo scaglionare il tempo, ridurre le persone che devono muoversi e cambiare lo scenario della mobilità puntando su quella elettrica e ciclistica. Se stradoni diventano strade solo per i ciclisti, vedrà che le persone si muoveranno molto di più in bici. La politica dovrebbe avere il coraggio di affrontare quel cambiamento, da sempre avuto sotto gli occhi e alla portata però mai fatto, e voltare finalmente (e del tutto) pagina. Se sindaci e regioni facessero un’alleanza per affrontare il tema dell’inquinamento, della sostenibilità e di un abitare sociale che aiuti anche chi fa fatica, questo post-virus potrebbe regalarci un Paese migliore».

E case migliori, magari. «La casa è il primo tassello del welfare. Incide sulla vita delle persone. La casa se è sana e buona, lo abbiamo visto anche con questa emergenza, è l’inizio di una prima cura. Abitiamo meglio, così ci cureremo meglio: è talmente semplice…».

Come cambieranno secondo lei le case, nelle nuove costruzioni o nell’ammodernamento di quelle passate? «Abbiamo bisogno di case che abbiano un rapporto con l’aria esterna, con le piante, con i giardini, con una vista. Abbiamo notato in questi giorni come un terrazzino apra uno spazio sociale, pensiamo a quelli che cantavano assieme e a quelli che si scambiavano una bottiglia di vino. La casa è una rappresentazione del modo in cui vogliamo stare insieme agli altri. Ma se vogliamo case del genere, aperte sull’esterno, bisogna che l’aria della città sia più pulita, quindi ridurre l’inquinamento».

La natura ha beneficiato del lockdown. «La gente ha dimostrato un bisogno di natura e di architettura enorme, ché sono i luoghi dove stiamo insieme. I ragazzi in questi giorni hanno riscoperto il luogo sociale della scuola, i più grandi il desiderio di tornare in un museo, in una caffetteria, a sentire un concerto. Abbiamo riscoperto la meraviglia della natura e il piacere di una passeggiata: ce n’eravamo dimenticati, nella frenesia. Correvamo tanto, ma per andare dove?».

Quale direzione prenderebbe, ora? «Consumare meno e consumare meglio, abitare meglio per vivere meglio, avere più cura delle persone, intasare meno la città e andare un po’ più in bici, che tra l’altro è un’attività salutare, camminare di più: nella corsa del tempo di prima erano tutti sogni, ora sono possibilità. La politica deve solo coglierle».

Questa pandemia ha sancito la rivincita della periferia sul centro cittadino? «Credo di sì. Anche se dobbiamo smetterla di parlare di periferia, che ha pur sempre un’accezione negativa. Chiamiamola piuttosto “la città moderna”. Ecco la città moderna ha aperto uno scenario più interessante in questi giorni: non si vive tutti attaccati, c’è molto più spazio verde. Se mettessimo a posto certe zone e se vedessimo la città più come una rete, con spazi di quartiere dove curarsi prima di accedere ai grandi ospedali, luoghi di socialità e tanto verde, ci troveremmo una vera e grande città densa, storica e più verde. Bellissimo, no? Siamo tutti cittadini della stessa città. Il bello è che vivremo meglio, se vivremo tutti insieme meglio»0

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