Post-sisma: «un errore il com’era e dov’era»

Pubblicato
01 Feb 2017

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Di Mariagrazia Barletta

Nel giro di pochi mesi alcuni progetti del suo studio dovrebbero passare dal render al cantiere. Tra questi la nuova torre Unipol a Milano, in zona Porta Nuova (dove si sta concludendo la sede Coima), e poi uno spazio espositivo ideato per la Fondazione Golinelli, a Bologna. Ed ancora: il polo chirurgico e delle urgenze dell’Ospedale San Raffaele e il museo etrusco della Fondazione Luigi Rovati, entrambi a Milano. E poi in corso ci sono i progetti per la Città della salute nelle ex aree Falck a Sesto San Giovanni e per il nuovo rettorato dell’Università Roma Tre nella Capitale. Lo studio di Mario Cucinella intensifica la sua attività in Italia, che occupa – ci dice – il 70% del suo lavoro (il 30% dell’impegno dello studio è rivolto all’estero). I suoi progetti aprono riflessioni interessanti sulla ricostruzione post-sisma e sull’ospedale del futuro.

Architetto, dopo il nido d’infanzia a Guastalla, a Reggio Emilia, possiamo aspettarci altre sue opere dalla ricostruzione post-sisma? «Stiamo per terminare alcuni progetti in Emilia-Romagna. Confindustria Emilia-Romagna e i sindacati confederali (Cgil, Cisl e Ui1, ndr), tre anni fa, dopo il terremoto dell’Emilia, hanno costituito un fondo: i lavoratori italiani iscritti ai sindacati confederali hanno donato un’ora di lavoro e sono stati raccolti 7 milioni e mezzo di euro. Questi soldi sono stati destinati alla costruzione di alcune opere. Mi hanno chiesto di lavorare su questo progetto, così abbiamo coinvolto sei ragazzi del territorio. Questi giovani architetti hanno svolto un lavoro sul posto per capirne i bisogni ed è nata una casa della musica a Pieve di Cento. A Bondeno abbiamo realizzato dei volumi cilindrici che vengono dati ad una scuola circense. A San Felice sul Panaro ci sarà, invece, un centro per l’aiuto alle famiglie con persone che hanno problemi psichiatrici. Poi ci sarà una biblioteca per i giovani a Quistello. Infine, una scuola di danza a Reggiolo». […]

Questi progetti guardano al futuro… «Vede, il disastro del terremoto del Centro Italia ha posto quella stupida domanda del com’era e dov’era, invece io direi che il punto forse è: come sarà. Questi edifici a cui lavoriamo in Emilia prima non c’erano, quindi il com’era e dov’era non ha senso perché la scuola di danza non c’era, la casa della musica non c’era, e quindi quel dramma umano, industriale, economico, è diventato un’opportunità per il territorio. Dobbiamo trasformare il problema in un’opportunità per migliorarli quei territori, non per fare quello che c’era, perché non è detto che quello che c’era era proprio bello».

Il futuro dell’edilizia ospedaliera è stato il tema di un incontro, che vedeva protagonista l’Ospedale San Raffaele, tenutosi in occasione della mostra che la Triennale ha dedicato ai lavori milanesi del suo studio. Qual è la riflessione più importante che ne è venuta fuori? «Gli ospedali sono interessati da una grande evoluzione delle dinamiche che riguardano sia le cure che la degenza. È cambiata proprio la percezione dell’architettura di un ospedale. Un ospedale è una macchina che deve funzionare perfettamente, però l’estetica non coincide più con quelle macchine pesanti, con quei monoblocchi molto ostili e che incutono anche un certo timore. C’è una percezione dell’ospedale come luogo di cura legato alla vita, non alla cura ma alla vita. Quindi un primo tema è la bellezza, che è un elemento importante. La dottoressa Gastaldi, ossia la proprietà del gruppo San Donato, mi ha detto: «La bellezza è anche una forma di cura». Io mi chino davanti a coloro che hanno questa visione».

Qual è l’altro tema? «L’altro tema riguarda il processo delle cure. Il San Raffaele è interessato da un lavoro enorme sul pronto soccorso, che non è più quello di una volta, ma è di fatto l’ospedale dell’immediato, quello che deve risolvere un problema urgente nell’immediato. Quindi c’è, ad esempio, uno studio sulla distribuzione del piano, sulle modalità con cui l’ammalato arriva ed entra in una sala operatoria. Il polo chirurgico del San Raffaele modifica i tempi di arrivo di un malato, che invece di percorrere trentaquattro metri ne fa solo quindici. Ciò permette di recuperare qualche secondo, ma la vita scompare in pochi secondi».

Passiamo ad altri progetti: dovrebbe essere a buon punto la sede Coima in costruzione a Porta Nuova, a Milano, è così? «Ad aprile-maggio sarà finita. Poi a fianco ci sarà la torre Unipol che parte a marzo-aprile con i lavori».

Altri lavori in corso? «Stiamo lavorando al centro “Arti e scienze” della Fondazione Golinelli, a Bologna. A febbraio partono i lavori. Poi stiamo recuperando un edificio storico a Peccioli, in Toscana, per farne in parte appartamenti di social-housing e in parte una biblioteca per la comunità. Poi sarà avviato il cantiere del museo etrusco della Fondazione Rovati, a Milano. Stiamo facendo la gara adesso».

Il 2017 dovrebbe essere l’anno decisivo per la sede dell’Arpae (Agenzia regionale per la prevenzione, l’ambiente e l’energia) a Ferrara, è così? «Dopo dieci anni, siamo oramai in chiusura. Doveva essere chiusa l’anno scorso, a giugno, e invece dovrebbe essere conclusa entro questa primavera».

Il concorso di progettazione risale al 2006, cosa l’ha fermata per tanto tempo? «Il solito sistema italiano degli appalti: vince un’impresa che non possiamo scegliere, che non ha le capacità per sostenere quel lavoro. Poi c’è stato il tema dell’adeguamento sismico, perché essendo un edificio pubblico, il cliente ovviamente ha espresso la volontà di adeguarlo. È un edificio di legno che dovrebbe stare su comunque per la sua flessibilità. Abbiamo avuto mille problemi sulla parte di rinforzo strutturale. E poi una lentezza delle imprese, tutte sull’orlo del fallimento. Io lo dico sempre in tono non polemico, ma realistico: ho l’impressione che il sistema dell’appalto pubblico sia a tutela dell’impresa e non del bene pubblico. Ci sono voluti dieci anni per fare un lavoro così, per il quale bastava un anno, un anno e mezzo, volendo esagerare».

Il nuovo Polo universitario ad Aosta sembra invece che stia procedendo secondo i tempi previsti… «So che sono fuori terra, ci sono diciotto mesi davanti, insomma il tempo per finirlo ce l’hanno. E forse quella è una delle poche operazioni concrete di rigenerazione urbana, di riuso delle caserme, di cui tutti parlano. È un esempio semplice di trasformazione di una caserma in un luogo della cultura».

Architetto, è evidente che il suo lavoro in Italia si sta intensificando. Cosa accade: c’è un maggiore desiderio di buona architettura, un risveglio della committenza o altro? «Il desiderio di buona architettura lo auspichiamo da sempre. L’Italia ha bisogno assolutamente di buona architettura perché ce n’è troppo poca. La nostra situazione è anche un po’ particolare perché una parte dei nostri lavori è il risultato di un percorso iniziato qualche anno fa. Ad esempio, abbiamo vinto due anni fa la gara per la Città della Salute e probabilmente cominceremo nei prossimi mesi. Poi c’è una committenza privata molto selettiva, penso ad Unipol, per esempio, e alla gara per la torre di Milano. Intanto un’azienda italiana, non vorrei sembrare provinciale, fa una gara ed invita cinque studi italiani, senza avere quell’ansia esterofila che hanno purtroppo molti clienti. Secondo me Unipol ha fatto bene a dare un’opportunità a degli studi italiani, perché una delle difficoltà degli studi italiani, piccoli o grandi che siano, è che fanno fatica a confrontarsi su un mercato più vasto, perché hanno poche opportunità in Italia: l’architettura si deve esercitare, se non lo si fa, si fa poi fatica a partecipare alle gare internazionali, in cui l’ambiente è molto competitivo. Creare opportunità per gli studi italiani è secondo me un modo per investire sul Paese, sulle chance che il Paese può avere anche al di fuori dei confini. Inoltre, i clienti che stanno investendo risorse importanti pretendono un livello qualitativo che dia valore al proprio investimento, e questa mi sembra un’attitudine che finalmente dà un po’ la misura del fatto che il mercato è difficile ma è anche più attento, forse, a delle soluzioni più qualitative».

Si sta affinando la sensibilità nei confronti dell’architettura… «Sì, arriviamo un filino in ritardo, però non dimentichiamo che la crisi ha anche spazzato via una parte di mercato qualitativamente molto bassa. Quindi con quel contesto dei grandi numeri è finita anche la corsa ai progetti poco qualificanti, poco attenti alla qualità urbana. Direi che la crisi è servita per prendere coscienza delle difficoltà che hanno le nostre città, e a prendere in considerazione i temi della periferia, della bellezza, della necessità delle infrastrutture. In una congiuntura non delle migliori, si inizia a capire che ogni volta che si fa una cosa è importante farla con sensibilità, con attenzione ai temi della sostenibilità, dell’energia e dell’ambiente».

All’estero qual è la situazione? «Nei Paesi in cui lavoro, come la Francia o anche Paesi difficili come l’Algeria, se qualcuno vince una gara la vince per farlo l’edificio. Questa è la differenza sostanziale che io trovo. Da noi, invece, si vince una gara e poi non si sa cosa accadrà. Il nostro è un mercato che non è sano. C’è anche il problema, che non bisogna nascondere, delle capacità della committenza. Si fa presto a parlare degli architetti, però la committenza pubblica da noi è molto confusa, non ha gli strumenti, fa le gare e non ha il portafoglio. Quella privata è più pragmatica perché se fa una gara o invita qualcuno è perché ha un bisogno».

Lei ha citato le periferie, come giudica l’impegno del Governo, sfociato poi nel piano per le periferie? «L’iniziativa era necessaria anche dopo il messaggio molto forte lanciato da Renzo Piano per dire che ci stavamo dimenticando di un tema importante per il futuro delle città: le periferie. Quel lancio rivolto alla politica è stato un segnale secondo me importante ed è abbastanza sorprendente che chi stia dicendo alla politica di che cosa occuparsi non è la politica, che dovrebbe, ma è un architetto. È evidente che le periferie hanno bisogno che ce ne prendiamo cura. Adesso io credo sia necessario anche superare questa idea che esista la periferia: la periferia è la città contemporanea, non è qualcosa di estraneo. Di periferie ne potevamo parlare negli anni Sessanta e Settanta, oggi le città sono tutte amalgamate. Sul tema delle periferie, però, non si può scherzare perché stiamo parlando della vita dei cittadini, della qualità del futuro delle città italiane. È un argomento serio. I segnali adesso arrivano. Io sono ottimista, però dalle chiacchiere bisogna poi partire a fare le cose

Guadagniamo consapevolezza del problema.. «Sì, anche da parte dei privati. Prendiamo le aree Falck: si tratta probabilmente di una delle più grandi operazioni di trasformazione del Paese, se non d’Europa. Le trasformazioni ambiziose, come questa, credo che siano anche un elemento di guida per il Paese, perché con esse si forma una classe di imprenditori che lavora su questi modelli di business».

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