Valorizziamo la cultura dell’Architettura

Pubblicato
26 Jun 2019

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Di Marco Luraschi

Mario Cucinella: la rivoluzione etica del valore e non del prezzo

Lo studio Mario Cucinella Architects è oggi uno dei più importanti non solo in Italia ma a livello internazionale nel campo dell’architettura, con due sedi, Bologna e New York, e un team di quasi 100 collaboratori. Una delle caratteristiche dei lavori di Mario Cucinella è quella di avere un forte taglio innovativo e legato alla sostenibilità, con un approccio che lui stesso definisce “olistico”. I progetti dello studio integrano la tecnologia con le strategie ambientali e climatiche. Mario Cucinella ha ricevuto in questi anni moltissimi riconoscimenti internazionali (la Honorary Fellowship dell’American Institute of Architects nel 2017 e la prestigiosa International Fellowship del Royal Institute of British Architects nel 2016). Tra le ultime realizzazioni l’HQ Coima a Porta Nuova e la prossima Torre UnipolSai sempre in quell’area. Cucinella attraverso la pagine de “Il Settimanale” lancia un richiamo forte e chiaro ai valori dell’architettura, in un contesto che purtroppo appare quanto mai confuso e poco incline alla qualità.

Architetto, qual è oggi il rapporto tra architettura e committenza? È migliorato o è peggiorato? «Più che migliorato o peggiorato direi che il rapporto è cambiato, i soggetti privati in Italia sono cambiati, si sono affacciati committenti più preparati ed esigenti. I fondi o i veicoli di investimento richiedono molta più attenzione alla gestione del budget, sono soggetti anche più difficili e scrupolosamente attenti. C’è attenzione spasmodica ai costi, questo stressa il lavoro creativo dell’architetto. C’è poi un tema di soggetti più piccoli che si appoggiano ai fondi di investimento, che hanno cambiato molto il rapporto in tema di qualità».

Parliamo di progettazione: la rivoluzione del BIM vede attori impegnati e invece alcune parti della filiera che sembrano scettiche. A che punto siamo del percorso di rivoluzione culturale del progetto? «È un dibattito strano, il BIM per noi è uno strumento di lavoro, più complesso nella gestione di una commessa. Il BIM non migliora o peggiora l’aspetto creativo di un architetto. Svantaggi dall’adozione del BIM non ne vedo proprio, il BIM porta uno studio ad aumentare la competenza per l’utilizzo di uno strumento che impone molta precisione e attenzione. Quello che è un tema è che non c’è stato un impatto sugli onorari per l’utilizzo del BIM, la curva dei compensi deve essere decrescente, mi spiego il committente deve iniziare a capire che il BIM richiede uno sforzo iniziale da parte dello studio infinitamente più grande, un livello di conoscenza molto maggiore, attenzione, precisione, coordinamento ed investimento economico. Noi siamo uno studio composto da 100 professionisti, abbiamo inserito 3 BIM Manager, investito in formazione per 80 persone. L’investimento vale per tutti, è un costo che va ripartito, anche perché tutti i vantaggi poi vanno al committente nel lungo periodo. Bisogna rivedere l’equilibrio economico a livello di rischio, non può essere tutto a carico dello studio visto che il BIM è utile, alla luce dei benefici soprattutto al committente. Ripeto, lo sforzo iniziale dello studio nel produrre un progetto in BIM, che ha tutto del progetto definitivo, oggi non vede una corretta ridistribuzione economica. Il committente deve comprendere che si tratta di un investimento qualitativo molto importante».

Il tema della sostenibilità è centrale nel suo lavoro: cosa vuol dire sostenibilità a 360° nel mondo della progettazione? «È una nostra filosofia ma non ci sono altre opzioni sul tavolo. È anche un argomento scivoloso perché vengono coinvolti tanti temi diversi, l’aspetto energetico, di comfort, di emissioni di CO2, di costi e CO2 altro, così che si crea un po’ di confusione nel capire cosa è la vera sostenibilità. Serve anche qui un passo in avanti da parte della committenza che all’inizio si mostra sempre ambiziosa ma poi viene a mancare il passaggio culturale che porta la sostenibilità da mero costo a valore. Così si traduce la sostenibilità in termini tecnici mentre c’è un tema più complesso che non sia solo quello, per esempio, degli impianti di climatizzazione. È vero che è una storia iniziata da poco e i passi successivi sono sempre i più difficili ma ci arriveremo. La sostenibilità deve essere un’attitudine che viene da lontano, che vince sempre sul mero profitto. Dobbiamo capire che il profitto per il profitto alla fine porterà ad un costo che sarà sempre superiore al profitto stesso. L’investitore deve anche portare un messaggio sociale: il valore è diverso dal costo. Detto questo, oggi va meglio di dieci anni fa e quindi siamo sulla strada giusta».

La qualità vuol dire anche “porre l’uomo al centro del progetto” e soprattutto, quanto secondo lei si perde la qualità lungo la filiera? «Si perde qualità nella realizzazione perché questa catena penalizza sempre l’ultimo anello. È un passaggio culturale e etico, se si perde il valore alla fin della filiera il prodotto non vale più il prezzo. Aver schiacciato in questo modo la filiera nella parte finale è stata una politica di prezzo che non ha pagato ed ha fatto danni enormi. Molte imprese sono morte, questo atteggiamento è il suicidio della filiera delle costruzioni. Io rimango anche basito dagli sconti che gli architetti accettano sul mercato, dal 40 al 60% sul prezzo, la filiera dell’architettura merita una maggiore dignità e così anche la professionalità della progettazione. È stato un errore concentrare troppo il potere nel General Contractor, non va bene. Bisogna fare bene i conti ma valorizzare la filiera, non è che nell’edilizia tutti i prodotti utilizzati sono uguali, ci sono grandi differenze qualitative. In architettura, tornando alla mia professione, la politica dello sconto non funziona, se uno lavora bene deve investire sulle persone, sugli strumenti, non posso svendere il mio prodotto, la mia conoscenza, possibile che non si capisca. Poi c’è una polverizzazione esasperata del mestiere, esiste una dimensione etica di quello che facciamo. La professione è molto lontana da dove dovrebbe essere. Mi sorprende molto per esempio il posizionamento della progettazione “chiavi in mano”, l’architettura diventa così uno dei tanti servizi, ci sono società di ingegneria che subappaltano l’architettura. Io penso che invece l’architettura sia un mestiere di cui c’è e ci sarà sempre più bisogno, e deve essere al centro dei processi progettuali. Serve una vera valorizzazione del mestiere in Italia, bisogna investire sull’organizzazione degli studi di architettura, in Italia manca questa cultura».

È vero che oggi la qualità la si trova nella committenza che investe per se stessa più che per chi investe per vendere al mercato? «Il tema è che “se lo faccio per me” cambia la prospettiva ma un po’ è cambiata anche per chi vende ai fondi, il mercato è più maturo. è chiaro che però è un ambito che ha dei limiti, i committenti non sono tutti uguali ma se uno vuole ribaltare il tutto è una battaglia persa. Il mercato è questo e se uno decide di lavorarci lo fa al meglio dentro quei limiti».

Qual è il progetto del suo studio a cui lei è più legato? E il prossimo che sta realizzando che ritiene più significativo? «Adesso mi piace citare il Museo Etrusco della Fondazione Rovati, una storia meravigliosa dove l’architettura diventa protagonista, non si tratta solo di una collezione archeologica. Non è solo un contenitore ma una vera opera architettonica che dialoga con la storia».

Qual è il futuro dell’architettura in Italia? «Bisogna fare più architettura in Italia, ci sono tanti convegni in cui si parla ma poi se ne fa poca. Così alla fine c’è poco confronto, pochi progetti, il non fare è un danno enorme! Il futuro? Fare più architettura: possibile che in 30 anni di politica non sia mai stata nominata la parola “architettura”? Se non per parlare bene dell’architettura negli altri Paesi… Serve un segnale culturale che però non vedo. Eppure siamo un Paese che ha vissuto di architettura, da tutto il mondo vengono a vedere le nostre città. Manca il soggetto Pubblico. Abbiamo lasciato il campo aperto agli investitori, e meno male che ci sono, ma solo il soggetto Pubblico può giocare un ruolo decisivo per il Paese, l’Italia merita un grande ruolo del Pubblico, gli architetti hanno bisogno di creare delle opere pubbliche. L’architettura non può essere solo mercato».

Riusciremo in Italia a “fare sistema” nell’industria Real Estate come negli altri Paesi? «Il Paese è figlio di una cultura dell’impresa di costruzioni che si mette a fare il developer, e intanto le imprese sono sempre meno. Sono due mestieri diversi. È un bene che si siano affacciati soggetti strutturati, penso anche alle operazioni di Catella per fare un esempio, che hanno bisogno di fare rete. Cosa che non sanno fare gli architetti, con una pletora di studi sproporzionata, figlia di una cultura non indirizzata a fare sistema».

Sta andando spesso all’estero? «Sono spesso negli Stati Uniti, un Paese molto selettivo e anche molto attento ai cambiamenti. Però comunque gli architetti sono più uniti, esiste una giusta competizione ma sulle grandi battaglie la categoria è più compatta. Ho base a New York e stiamo sviluppando due progetti per un developer a Boston e a Pittsburgh. Hanno capito il valore aggiunto di un’architettura di qualità, anche se non è sempre facile».

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