Più architettura e meno burocrazia per soddisfare i bisogni delle persone

Pubblicato
03 Apr 2020

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di Raffaella Cascioli

«Oggi possiamo realizzare opere meravigliose per dare una risposta ai bisogni delle persone. Abbiamo ancora necessità di luoghi di incontro ma possiamo far convivere passato e presente per cui in una piazza così antica, come quella di Bologna, ci incontriamo ancora e ci divertiamo, ma abbiamo anche bisogno di Salaborsa che è una sala coperta dove c’è una biblioteca, dove c’è la connessione wi-fi, dove si può leggere un giornale gratuitamente». Mario Cucinella è uno dei più importanti architetti europei, ha realizzato molte opere in Italia, dove si è scontrato con testardaggine con la burocrazia del nostro paese, ma è soprattutto all’estero dove i suoi progetti hanno raccolto premi internazionali. Curatore del Padiglione Italia alla Mostra Internazionale di Architettura di Venezia del 2018, con il progetto #arcipelagoitalia, Cucinella ha accettato di affrontare il tema della piazza a cui l’AREL, seppur ai tempi del Coronavirus, dedica questo numero della rivista. Per Cucinella in Italia c’è bisogno di più architettura per soddisfare le esigenze delle persone, ma anche di meno burocrazia: «Se vogliamo costruire in modo serio un ospedale rischiamo di non riuscirci neanche in dieci anni» e questo rischia di avere costi sociali altissimi. «Non è possibile che la maggior parte dei luoghi dove si può stare siano a pagamento. Ecco credo che, oggi più che mai, abbiamo bisogno di luoghi gratuiti dove incontrarci, avere una connessione wi-fi, socializzare e, comunque, dare risposta a quel bisogno sociale di stare insieme. Credo che questo sia un messaggio potente».

Le piazze, così come i palazzi, le chiese e i monumenti che le compongono appartengono alla storia e alla memoria delle persone. Le piazze sono state e sono ancora luogo di aggregazione, ma anche di emarginazione. Crede sia possibile coniugare bellezza e sostenibilità, comunità/inclusione e tecnologia? «Le piazze nascono con uno scopo molto preciso. In Italia sono nate come una forma di rappresentazione della democrazia. Erano i luoghi dove si poteva discutere liberamente, dove si poteva fare mercato, dove si poteva competere, dove in qualche modo si poteva stare tutti insieme. In un certo senso la piazza è l’espressione più importante della nostra civiltà: un luogo aperto di incontro. Spesso guardiamo alle piazze magari solo da un punto di vista dello spazio architettonico; in realtà quello spazio nasce anche per rappresentare un bisogno sociale, non solo per soddisfare un’esigenza estetica. Ecco, a me sembra un valore straordinario il fatto che le piazze nascano per mille ragioni, ma che la ragione più importante sia il desiderio di costruire luoghi in cui stare insieme. Uno dei problemi che negli ultimi cinquant’anni abbiamo avuto nelle città moderne è stato proprio il fatto che non siamo riusciti a rappresentare questo desiderio di comunità. Tutte le tensioni sociali che sono avvenute in molti paesi, in molte periferie, sono nate anche perché i luoghi di rappresentazione delle persone sono mancati. Le piazze hanno, quindi, un ruolo importante. Non c’è dubbio che è possibile coniugare comunità e bellezza: non a caso le piazze più belle sono quelle più amate. E questo perché noi architetti lavoriamo per gli altri: la rappresentazione dello spazio è realizzata pensando alle persone. Mi piace pensare che il mio lavoro sia il risultato di un’azione che rappresenta qualcuno. È evidente poi che comunità e inclusione costituiscono temi prioritari anche nel tempo contemporaneo: per quanto i mezzi di comunicazione che utilizziamo oggi siano inclusivi e generino comunità, le persone sono sempre più sole e cercano luoghi di incontro in cui ritrovarsi. A Bologna, dove vivo, le piazze sono uno dei luoghi più importanti di incontro delle città: si va in una piazza per incontrarsi, per parlare, per innamorarsi, per sentire un concerto. Ancora adesso, nonostante abbiano cinquecento-seicento anni. Sono proprio i luoghi dove si tiene insieme la città».

A proposito di questo, esiste una formula, un segreto che fa sì che le persone si approprino di un progetto architettonico facendolo entrare a pieno titolo nelle loro vite? Un esempio può essere l’auditorium di Renzo Piano, a Roma, che neanche a dirlo ha al centro una piazza con funzione di cavea. «La formula è molto semplice: le persone hanno bisogno di architettura. Hanno bisogno di luoghi belli, perché nel momento in cui sono realizzati è come se fossero sempre stati lì. L’auditorium di Renzo Piano a Roma è un esempio: ovviamente stiamo parlando di un grande architetto che intuisce quali sono le formule, a cominciare dalla qualità dell’edificio e dello spazio. Il Maxxi, sempre a Roma, è un altro esempio: di per sé è uno spazio non solo museale, perché nella piazza antistante ci sono le mamme con i bambini che giocano e che non entrano per forza nel museo. Segno che quello era uno spazio di cui c’era bisogno. Ecco, quando gli architetti riescono a intercettare queste esigenze è come se quelle architetture fossero sempre state lì, entrano nelle vite quotidiane. In realtà quando i progetti sono realizzati con qualità, con attenzione, con sensibilità, le persone se ne accorgono. Purtroppo il dibattito in Italia su questo tema è sordo perché non si dà valore all’architettura. In un paese che ha una storia tra le più importanti, se non la più importante al mondo, l’architettura è stata considerata, soprattutto negli ultimi quaranta anni, come marginale nella vita sociale. Eppure le persone riconoscono l’architettura: quando avvertono che uno spazio è stato progettato per loro, se ne appropriano indipendentemente da chi sia l’architetto. Se un progetto relativo a una scuola o a un museo è colto, le persone colgono questa sensibilità. Questa è un po’ la magia dell’architettura. C’è bisogno di luoghi nuovi, di architetture contemporanee, di ritrovarsi in luoghi che, senza saperlo, quando li vediamo li riconosciamo come lo spazio che stavamo cercando. Questo è il lavoro dell’architetto, ma è chiaro che intorno a un progetto bisogna lavorarci. Io non difendo la categoria, perché siamo una categoria indifendibile».

Perché gli architetti sono una categoria indifendibile? «L’Italia ha una quantità di laureati in architettura impressionante, sono quasi 144 mila. Siamo tanti, perfino troppi. In più l’architetto ha una enorme responsabilità sociale, ma lo capiscono in pochi. Fare l’architetto è un mestiere molto pericoloso perché si tocca il nervo della società. Chi costruisce un edificio, una strada, una piazza, un museo, un ospedale sa già che quel luogo verrà trasformato e deve essere cosciente di avere in mano un’arma molto potente: si può fare del gran bene, ma può essere anche molto dannoso. La responsabilità è uno dei temi che sfugge a una cultura dell’architettura in questo momento molto superficiale, fatta di immagini, in alcuni casi anche molto spettacolare. Non a caso si parla di archistar. Ecco, questo tipo di approccio ha trasformato gli architetti, almeno quelli meno consapevoli e meno responsabili, che a volte partecipano a una specie di fiera in cui si tende a realizzare cose sempre più strane. Si entra in un vortice in cui non si capisce che questo, in realtà, è un mestiere di grande responsabilità per cui bisogna essere colti, bisogna studiare, ma bisogna anche essere consapevoli delle trasformazioni che un’opera architettonica produce. L’architettura è uno strumento potentissimo di rappresentazione di una società. Questo ovviamente lo sanno bene quanti vogliono gestire il potere attraverso architetture che rappresentano la forza, l’opulenza. Non a caso, la storia ci insegna che le dittature per prima cosa chiudono le piazze, bruciano i libri e costruiscono grandi architetture che rappresentano il potere. In modo diverso, anche la costruzione degli edifici religiosi, che hanno scritto la storia dell’arte, serviva a veicolare un messaggio di grandezza: basti pensare a un’opera come quella di Brunelleschi sorta quando nei dintorni il popolo viveva in casette piccole e spesso malsane. Oggi ho l’impressione, però, che si sia persa un po’ questa consapevolezza: l’architettura è ormai diventata una giostra».

Quindi cosa si sentirebbe di dire agli studenti che si affacciano ora allo studio dell’architettura e che già sanno che se saranno fortunati andranno a cercare lavoro all’estero? «Per prima cosa occorre studiare molto, con particolare attenzione alla storia. Questo è poi un mestiere che bisogna praticare. Gli studi sono necessari ma non sono sufficienti. Ormai il percorso di un architetto è anche quello del policy maker. Ai ragazzi che frequentano qui la nostra scuola di sostenibilità, SOS, una quindicina di studenti che vengono da tutto il mondo, dico sempre che questo è sicuramente un mestiere fatto di creatività, e quella purtroppo non la si può insegnare, ma bisogna anche dotarsi di strumenti conoscitivi di lavoro. Credo sia importante cominciare conoscendo gli strumenti di lavoro e poi vivere i primi dieci anni di carriera in un ambiente in cui l’architettura si realizza: vedete come si costruisce, capite quali sono i rapporti con i committenti, cercate di vivere l’architettura in maniera positiva, molto fluida. Purtroppo in Italia per costruire si fa molta fatica; siamo ingabbiati in questo mostro che gli uomini hanno creato e che non riescono più a governare: la burocrazia».

A proposito di burocrazia… come lei ha detto l’architettura è storia, è memoria. Non a caso con il passare degli anni ciò che si ricorda dell’infanzia, oltre alle emozioni, sono soprattutto i luoghi in cui quelle emozioni sono state provate: la casa, la scuola, la piazza, la via… ma, così come la memoria, l’architettura va conservata e preservata. Quanto pesa la burocrazia? «La burocrazia pesa molto. In realtà, esistono due facce. Da un lato, le regole sono importanti e quindi la burocrazia va vista come un sistema di controllo, che consente un’azione sociale pubblica necessaria. Dall’altro, il meccanismo è diventato così perverso per cui la fatica di raggiungere una concessione edilizia è tale che sminuisce di fatto il lavoro dell’architetto: si compie uno sforzo disumano per arrivare a un certo punto fino a penalizzare, talvolta, la qualità del progetto. Detto questo però per me, che seguo diversi progetti in Italia, la burocrazia non è un ostacolo creativo. Non dico che sia facile, anzi, lotto quotidianamente finché non ho risultati, però mi accorgo che spesso la bellezza di un prodotto architettonico viene vista in maniera strana. Siamo così abituati a vedere cose brutte che invece di premiare bei progetti si guardano solo le procedure. Il male peggiore della burocrazia è quello di non riconoscere la qualità dell’architettura. È una fatica disumana. Non è così solo in Italia. Lavoro anche in altri paesi e posso dire che è sempre difficile. Ad esempio, non è che in Francia sia più facile».

Eppure molti architetti italiani trovano lavoro in Francia… «La differenza è che in Francia c’è una determinatezza: di norma le concessioni edilizie si ottengono in tre mesi, perché l’obiettivo principale del processo burocratico è quello di raggiungere il risultato. In Italia, invece, non si capisce più quale sia il fine. Mentre in Francia, così come in Germania o in Inghilterra, seppur con fatica si lavora bene perché l’obiettivo della burocrazia è quello di controllare un processo per ottenere un risultato, in Italia il sistema burocratico è arrivato a una perversione tale per cui le norme e i sistemi di controllo sono talmente complicati che si fa veramente fatica a raggiungere l’obiettivo. Detto questo, non vorrei sembrare pessimista, perché, pur dentro una struttura burocratica che è una follia, abbiamo realizzato cose meravigliose. Quindi, vuol dire che occorre difendersi dalla burocrazia lavorando con molta cura perché si può realizzare un progetto, anche se è molto faticoso».

Lei è tra i primi firmatari del Manifesto di Assisi per un’economia a misura d’uomo contro la crisi climatica. Ritiene che il Green Deal a cui sta lavorando la Commissione europea possa essere una buona occasione per l’Italia e, in particolare, un’opportunità da cogliere per intervenire su quell’impianto urbanistico, paesaggistico e architettonico che ha mostrato più di una fragilità negli ultimi tempi? Se sì, in che modo? «La risposta più semplice e diretta è che non c’è un’altra opzione sul tavolo. È l’unica strada che possiamo percorrere. Una strada senza dubbio difficile e faticosa, ma obbligata. Il punto vero non riguarda però soltanto il cambiamento climatico, su cui possiamo certamente incidere con azioni collettive. Né tanto meno il Green Deal, la cui ambizione è indiscutibile e le cui parole sono tutte giuste. D’altra parte non si può che essere d’accordo con l’elenco degli interventi previsti su innovazione, green economy ecc. Va dato atto all’Europa che è l’unica area a insistere su questi temi. Tuttavia, qui l’ostacolo maggiore da superare è innescare un cambiamento culturale. Per quello ci vuole tempo. Noi veniamo da una cultura industriale di profitto e di consumo che ha impregnato tutta la società europea e mondiale. Ecco, nei prossimi anni milioni di persone dovranno cambiare punto di vista: si tratta di un processo complicato da mettere in moto e, per sua natura, lento. Dunque, il Green Deal va benissimo ma se non prevede un sistema formativo molto importante che deve insistere soprattutto sulle giovani generazioni, su quei ragazzi che oggi hanno iniziato ad avvertire l’esigenza di un cambiamento, non funziona. D’altra parte riconvertire un’industria che da cinquant’anni produce plastiche, non è possibile dall’oggi al domani. Occorre contare su visionari e bisogna che le persone capiscano che il Green Deal è un’opportunità ed è la sola possibile. Abbiamo bisogno di tempo. Per questo l’obiettivo al 2050 non è solo giusto, ma necessario perché trasformare una società abituata al consumo e a bruciare petrolio richiederà un’azione culturale estremamente importante e capillare. Questo, a mio avviso, è il tema cruciale del Green Deal».

Ricucire un paesaggio, un contesto urbano, un sentimento di comunità è possibile anche in Italia dove non si è riusciti ad approvare ancora una legge per azzerare il consumo del suolo? «In Italia non c’è una legge nazionale anche se regioni come la Lombardia, l’Emilia Romagna o la Toscana, si sono dotate di una normativa in merito. Tuttavia la questione dell’azzeramento del consumo del suolo va chiarita. La definizione di zero consumo di suolo riguarda il consumo netto. A parità di superfici occupate non ne consumiamo più: dunque si può demolire, si possono sostituire, ad esempio, grandi industrie abbandonate che hanno suoli già occupati ma non si può costruire su un terreno agricolo. Alcuni, invece, si nascondono dietro l’azzeramento del consumo di suolo per non fare più niente. Questo non è realistico: abbiamo bisogno di costruire musei, scuole, ospedali, infrastrutture. La Germania ha questa legge ma non per questo ha smesso di costruire, semmai ha innescato un processo di sostituzione: ho un edificio fatiscente, lo demolisco e lo sostituisco costruendone un altro a parità di consumo di suolo. La legge sull’azzeramento del consumo di suolo ha un senso se fornisce indirizzi precisi, per cui non si può costruire su terreni agricoli, ma si può sostituire gran parte del patrimonio edilizio che è ammalorato. Questo processo deve essere chiaro; ho invece l’impressione che, spesso, in questo dibattito molti politici si nascondano dietro al fatto che non si deve fare più nulla. È evidente che si tratta solo di un alibi, bisogna legiferare con più attenzione e più chiarezza. Ad esempio, manca in Italia una mappa dell’occupazione dei suoli. Nessuno sa quanto suolo possiamo sostituire sia a livello nazionale che regionale o comunale. Se in un comune ci sono, ad esempio, vaste aree occupate da fabbriche abbandonate vuol dire che c’è un potenziale; poi magari non si ha bisogno di utilizzarlo ma non c’è dubbio che invece di distruggere altro territorio fragile, come il nostro, occorre avviare un’opera di riconversione ristrutturando, sostituendo o anche demolendo per ricostruire nuovi luoghi».

Lei realizza progetti in tutto il mondo: dall’Europa all’America e anche in Cina. Quella stessa Cina che ha dato prova di sapere costruire ospedali in pochi giorni per l’emergenza Coronavirus. È più difficile costruire in Cina o in Occidente? «Non è facile neanche lì, ma certo non è difficile riuscire a costruire in Cina: noi abbiamo costruito un edificio per l’Università di Pechino e abbiamo realizzato nel distretto di Zhejiang un edificio per l’università di Nottingham. Negli ultimi quindici anni la Cina è esplosa: si è costruito tanto e male, poi, nell’ultimo periodo, hanno imparato anche loro a costruire meglio. Adesso in Cina c’è una qualità edilizia molto più importante di prima. Detto questo, hanno costruito un ospedale in dieci giorni ma bisognerebbe conoscere di cosa si tratta: magari è una struttura prefabbricata composta da una serie di container a cui hanno lavorato migliaia di operai e qui passa la comunicazione che hanno costruito un ospedale in dieci giorni. Diciamo che la cultura cinese impone che quando si inizia un’opera la si finisca e non si fallisca. La forza del popolo cinese è proprio questa: era necessario un ospedale, hanno messo in pista un processo e lo hanno realizzato. Come ci sono arrivati è tutto da studiare, anche perché di fronte all’emergenza ci siamo riusciti pure noi a realizzare strutture prefabbricate. In Italia, però, se vogliamo costruire in modo serio un ospedale rischiamo di non riuscirci neanche in dieci anni. Dopo litigi, ricorsi e azioni giudiziarie, conclusi con l’ammissione che si sono sbagliati, sto realizzando l’Ospedale a Sesto San Giovanni per la Città della Salute e della Ricerca. Si tratta di un’istituzione d’avanguardia di ricerca sui tumori e sulle cellule neurologiche che riunisce due eccellenze italiane, la Fondazione IRCCS Istituto Neurologico C. Besta e la Fondazione IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori. È necessario, ma si è perso inutilmente del tempo perché oggi quell’ospedale poteva essere finito; il costo sociale è alto per questo ritardo, eppure, nessuno pagherà. E questo perché in Italia la determinazione dell’uso degli strumenti sociali è molto debole».

Sono arrivate fino a noi piazze medioevali, rinascimentali, barocche, ottocentesche con tutto il bagaglio di bellezza e storia che portano con sé. Che piazze lasceremo agli italiani del futuro? «Bisognerebbe che ce le facessero fare… credo che le piazze del futuro, così come sostiene Antonella Agnoli, siano le piazze del sapere. E questo è il grande messaggio del nostro tempo. Sono di fatto i luoghi della cultura: le biblioteche e i musei, le scuole sono le vere piazze del futuro. D’altra parte l’Italia ha già belle piazze, anzi sono le più belle del mondo. Si tratta di luoghi meravigliosi: due anni fa alla Biennale di Venezia sono stati accesi i riflettori sulle aree interne d’Italia con un viaggio nei luoghi più conosciuti come Gubbio, ma anche quelli meno conosciuti. In tutti è presente una piazza come il luogo del mercato. I mercati italiani sono sempre stati i veri luoghi della competizione perché era lì che gli artigiani vendevano e si confrontavano. Questo è tipico del DNA italiano: quando vediamo una cosa pensiamo subito che possiamo farla e magari farla meglio. Questo aspetto antropologico sociale è stato uno dei più grandi motori di innovazione del nostro paese: i mercati italiani, medioevali e rinascimentali, erano proprio i luoghi in cui si innescava una rincorsa competitiva sul prodotto per il bene del consumatore. Ancora oggi, nonostante una politica assente e nonostante una burocrazia opprimente, l’Italia riesce ad essere uno dei paesi di grande innovazione. E tutto questo nasce da un aspetto squisitamente antropologico sociale unico nel suo genere. In un tempo contemporaneo, però, l’idea di piazza si trasforma: non è più solo uno spazio aperto di incontro e di mercato, ma è il luogo nuovo della connessione e della cultura: oggi i musei non sono più solo i luoghi dove si va per vedere una mostra, ma sono luoghi dove ci sono caffetterie, librerie o dove si va a sentire un concerto. In questa evoluzione gli architetti possono incidere: abbiamo bisogno di architettura per realizzare questi nuovi luoghi. Questo è un punto cruciale, eppure il nostro paese non lo capisce e non investe nell’architettura. Un paese come l’Italia che non investe nei nuovi luoghi è un paese che, oltre a invecchiare, vive di un passato che, non a caso, è diventato il nostro incubo».

Articolo pubblicato sulla rivista Arel dedicate al tema delle PIAZZE

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