Quest’Italia che non vuole più progettare

Pubblicato
18 Oct 2018

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di Mario Cucinella

Di fronte alla tragedia del crollo del Ponte Morandi a Genova è necessario capire che il tempo è importante. E che ne servirà molto. Ciò che invece è emerso finora da parte di una politica allo sbaraglio è una fretta ingiustificata, potenzialmente pericolosa, frutto delle urgenze della stessa politica, della propaganda e della ricerca del consenso, e non invece funzionale a raggiungere l’obiettivo migliore e più utile. Una fretta che non è certo un buon servizio né ai cittadini né all’architettura, e quindi neanche al futuro nuovo ponte.

Come spesso accade nel nostro Paese, ministri e amministratori si sono affannati a trovare la soluzione più rapida, quando invece sarebbe sempre opportuno attivare riflessioni serie, mettendo attorno a un tavolo persone competenti che possano fornire indicazioni in merito a modalità, strumenti e obiettivi. Un tavolo di discussione che, in questo caso specifico, dovrebbe coinvolgere anche i residenti e i cittadini, che devono partecipare e devono capire. Perché non dimentichiamo che il Ponte Morandi, lì dove sorgeva, costituiva comunque da decenni un problema da affrontare e risolvere. Se le modalità della ricostruzione possono essere molte (da un nuovo viadotto al suo spostamento su un altro tracciato, come pure è stato suggerito, ma non recepito), niente toglie alla generosità di Renzo Piano che in qualche modo ha tolto dall’imbarazzo la politica nel gestire con tempestività una fase concorsuale (bastavano due mesi). L’obiettivo è però uno solo: avere un quartiere e una città migliori. È questo il compito più alto della progettazione architettonica.

Ma in Italia l’architettura non interessa alla politica, così come non interessano la progettazione e la pianificazione urbana. Non interessano oggi così come non interessavano ai precedenti Governi. E infatti l’Italia è un Paese che ancora attende una legge sull’architettura (e la riforma della professione), privo di procedure standard e di strumenti per affrontare le emergenze, come ha tristemente dimostrato anche la risposta ai danni del terremoto, per lo più impreparata e inefficace. Non ho mai sentito un presidente del Consiglio dei Ministri parlare di architettura. Ma questo silenzio è soltanto una delle tante dimostrazioni del fatto che in Italia l’architettura non è intesa come strumento di rappresentazione non soltanto della politica, ma più in generale della collettività e dell’intero Paese. Eppure il crollo del Ponte Morandi ha inciso fortemente sull’immagine dell’Italia nel mondo. Ma è altrettanto vero che un grande progetto potrebbe contribuire al suo rilancio e divenire simbolo di rinascita.

Quali sono, si chiedono in molti, le modalità corrette per assumere la decisione migliore in merito alla ricostruzione del Ponte Morandi? Non certo la fretta, dicevamo. E invece il dibattito recente si è concentrato soprattutto sui tempi, piuttosto che sui modi. Sui costruttori, piuttosto che sui progettisti e sui progetti. Il Governo ha subito pensato alla fase della costruzione, indicando addirittura l’impresa a cui affidare i lavori, ma non ha dedicato altrettanta attenzione (anche in termini di comunicazione a cittadini e organi di informazione) a una fase seria di progettazione (momento preliminare e fondamentale), magari attraverso un grande concorso internazionale in cui coinvolgere i migliori nomi possibili.

Tutto ciò può essere realizzato soltanto attraverso una visione globale del Paese e del suo futuro, che guardi e traguardi le politiche dei prossimi decenni. Ma l’Italia è un Paese che vive costantemente in affanno, nella perenne gestione dell’emergenza. Si parla di hardware e non di software, si farfuglia, si cerca il consenso immediato, si rifugge ogni atto di coraggio. È necessario un piano strategico, di medio-lungo termine, che definisca la visione complessiva sui temi delle infrastrutture, della mobilità e del paesaggio. È una questione complessa. Senza ansie da prestazione, ma anche senza l’arroganza di tanti politici egocentrici, ci si faccia aiutare. Si chiamino esperti e consulenti che facciano la loro parte per il futuro dell’Italia. Non sono mai stato personalmente indulgente nei confronti della categoria professionale degli architetti, ma la politica dovrebbe capire che proprio gli architetti hanno un grosso vantaggio: lavorano su un futuro sempre pieno di insidie e trappole, sono obbligati a proiettarsi verso il tempo del progetto realizzato, che è sempre il domani. Diamo loro credito: sono tra i pochi rimasti, nella società civile, a guardare in prospettiva e a elaborare visioni e strategie. I politici e gli amministratori li coinvolgano e li ascoltino, perché la progettazione architettonica, urbanistica e paesaggistica possa anche in Italia essere il simbolo delle nostre competenze e capacità intellettuali e creative. L’architettura torni a essere il luogo in cui si sostanzia il sistema Paese, in cui si manifesta il suo coraggio e la fiducia in se stesso. Nonostante tutto.

Testo raccolto da Alessandro Martini

Articolo pubblicato sul numero 390 Ottobre 2018 de 

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