Tutto quello che c’è da sapere sul Padiglione Italia alla Biennale Architettura di Venezia

Pubblicato
03 Jul 2018

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Articolo di Marco Valenti, Laura Pastorino

8 itinerari, 107 tappe, 67 architetture e 5 temi progettuali raccontano Arcipelago Italia, la risposta firmata Mario Cucinella al manifesto Free Space proposto dalle Grafton per la 16esima edizione della Biennale Architettura di Venezia. Si tratta della cronaca di un viaggio attraverso le aree interne della nostra penisola che il curatore del Padiglione Italia 2018 ha intrapreso nell’intento di ricostruire il rapporto interrotto o per lo meno trascurato tra architettura e luoghi marginali del territorio. E per farlo ha selezionato una serie di lavori basati sul recupero di situazioni critiche intercettate da nord a sud della penisola cui è affidato il compito di fotografare la realtà di territori spazialmente lontani dalle grandi aree urbane. Una ricognizione dello stato dell’arte, che testimonia la poco nota attività di professionisti locali tenacemente impegnati nella valorizzazione del patrimonio esistente. Questa è la prima sezione della mostra, quella che accoglie il visitatore, narrata attraverso 8 grandi libri illustrati, tra cui aggirarsi per scoprire borghi storici, cammini, parchi e iniziative rilevanti dal punto di vista sociale. L’esperienza immersiva nelle aree interne del nostro paese, rafforzata dal racconto cinematografico del cammino compiuto da Cucinella attraverso un’Italia spesso sconosciuta, prosegue con il contributo progettuale vero e proprio che rappresenta il fulcro della proposta curatoriale: all’interno di un secondo ambiente, una serie di tavoli in legno dalle forme organiche restituisce l’idea dell’arcipelago ospitando 5 ipotesi di intervento, frutto di un lavoro collegiale svolto da 6 studi di architettura emergenti, università e consulenti locali.

Tutti i progetti esposti trattano il tema dell’edificio ibrido, indicato da Cucinella come soluzione contemporanea alla carenza di servizi tipica dei territori extra metropolitani e interpretato come forma di rilancio di un’Italia invisibile ma esistente. Si va dal progetto dedicato alle filiera del legno delle foreste casentinesi, che combina abitazione e luogo di lavoro, al doppio progetto riguardante l’area sismica di Camerino, agli snodi ferroviari nel materano trasformati in edifici polifunzionali, per concludere infine con la casa di cura in Barbagia e il recupero a Gibellina del teatro mai completato di Pietro Consagra, da trasformare in spazio di aggregazione per la comunità locale.

Il risultato complessivo è quello di un manifesto articolato che indica una strada alternativa all’architettura gridata delle grandi opere. Declinato attraverso una moltitudine di micro interventi non sempre di immediata lettura. Per saperne di più abbiamo incontrato direttamente Mario Cucinella e gli abbiamo chiesto di raccontarci la sua esperienza in Biennale.

I lavori, per la maggior parte sconosciuti, e i nuovi progetti esposti riescono ad essere rappresentativi della scena architettonica italiana?
Non di tutta l’Italia, nel senso che raccontano un ambito particolare che è quello delle aree interne che, pur essendo estese dal punto di vista geografico, di fatto coprono il 60% della superficie del paese, in realtà dal punto di vista abitativo sono ormai davvero poco popolate se paragonate alle aree urbane, in cui comunque, bisogna ammetterlo, non succede poi così tanto dal punto di vista architettonico. Comunque restituiscono un quadro interessante e soprattutto poco conosciuto di una realtà progettuale seria ed impegnata. A me personalmente interessava molto, a parte il tema di attraversare l’Italia, testimoniare l’attività di progettisti molto competenti che svolgono, spesso faticosamente, il proprio lavoro su aree lontane dai riflettori, realizzando opere che non finiscono mai sulle pagine delle riviste, ma che rappresentano comunque una realtà che merita di essere indagata. Anche per spiegare ai giovani che il mestiere dell’architetto è un lavoro difficile, da intraprendere spesso su aree problematiche sia dal punto di vista geografico che economico. Su 500 progetti ricevuti ne abbiamo selezionati 67 che secondo noi rispecchiano in questo momento quanto sta succedendo in Italia, compreso il gap ancora esistente tra Nord e Sud, soprattutto dal punto di vista degli investimenti sul territorio.

Il criterio di selezione dei progetti in mostra su cosa si è basato? Ha prevalso la componente sociale o si è scelto comunque di prediligere progetti di qualità dal punto di vista architettonico?
La qualità dal punto di vista sociale è comunque la conseguenza di un buon progetto, che può essere indistintamente il recupero di una piazza in un borgo, il ripristino di un belvedere o la realizzazione di un nuovo edificio che vada a colmare delle lacune esistenti sul territorio. Sono tutti esempi di presa in cura di un patrimonio unico. Molti dei lavori in mostra sono anche rappresentativi di un’attitudine tutta italiana che è quella di confrontarsi con un contesto talmente storicizzato che difficilmente può essere trasformato facendo ricorso a stravaganze. Cosa che invece può succedere all’estero. Noi italiani siamo obbligati a confrontarci con l’esistente. Il che vuol dire che non bisogna mai perdere il senso della misura e dell’equilibrio. Soprattutto nelle cosiddette aree interne del nostro paese. I progetti esposti cercano di recuperare delle zone che altrimenti si spopolerebbero del tutto, interagendo con le necessità della gente del luogo. E questo è già un gran merito che va assolutamente testimoniato.

Le ultime due edizioni della Biennale Architettura di Venezia, curate rispettivamente da Rem Koolhaas e da Alejandro Aravena ci avevano abituato ad una narrazione più spettacolare del tema di riferimento scelto per la manifestazione. In questo caso abbiamo assistito a una generale inversione di tendenza che ha attraversato un po’ tutti i lavori in mostra. È dipeso dalla particolare natura del manifesto Free Space lanciato dalle Grafton?
Sicuramente, per quanto mi riguarda, la particolare natura dei territori indagati, densa di problematiche complesse, diffuse longitudinalmente lungo tutta la penisola, può difficilmente essere liquidata attraverso allestimenti d’effetto o frasi lapidarie. Personalmente sono stanco della velocità delle attuali forme di comunicazione che cercano di accelerare qualunque processo di apprendimento o conoscenza di un fenomeno, consumandolo prima di averlo realmente compreso. Un lavoro, durato magari tre anni, non sempre può essere riassunto o raccontato attraverso un’immagine. I lavori in mostra sono frutto di una lunga selezione, intrapresa viaggiando attraverso l’Italia, incontrando persone e capendone le esigenze. Tutto questo ha richiesto tempo. E invece di puntare sull’immagine abbiamo cercato di capire il perché dei progetti. Un tema del genere necessita per forza di pazienza. Non può essere semplificato. E la forza di propagazione del messaggio va considerata sul lungo periodo. Ci interessa fare luce su realtà dimenticate dall’architettura cosiddetta ufficiale, realtà che senza volere essere nostalgici, sono il risultato di stratificazioni storiche che non possono essere ignorate. Bisogna creare un ponte con la storia. Per organizzare il padiglione ci è voluto davvero molto tempo e trovo giusto che ci voglia il giusto tempo per studiarlo, girarlo e comprenderlo realmente. Non si può certo liquidarlo con un twitter o una sola immagine.

Francesco Dal Co, curatore del Padiglione della Santa Sede, ha affermato di non credere all’architettura rappresentata attraverso disegni o plastici. Tanto che per il debutto del Vaticano alla Biennale ha pensato di invitare 10 architetti a realizzare 10 cappelle isolate. A parte questo episodio si è invece riscontrato quest’anno un grande ritorno a i disegni e ai modellini. Come mai?
Sono pienamente d’accordo sul fatto che l’architettura abbia senso compiuto solo se costruita, ma non bisogna dimenticare che architettura vuol dire anche cultura, testi e storiografia. Pensiamo, solo per fare un esempio, ai grandi trattati di Vasari. Anzi trovo che per i più giovani, abituati alle esplorazioni spaziali delle moderne tecniche di disegno in 3D, possa essere utile confrontarsi anche con la bidimensionalità dello schizzo a mano o delle planimetrie. Perché questi strumenti fanno parte di una realtà progettuale che punta più sulla sostanza che sull’immagine. Capita sempre più spesso di imbattersi in fotografie di architetture che non rispecchiano realmente lo stato di fatto. È come se l’immagine pubblica di un edificio, quella che lo rappresenta, debba essere per forza priva delle piccole imperfezioni che la vita e l’uso apportano agli spazi che viviamo.

 

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